Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9426 del 2024, ha affrontato la natura e gli effetti del c.d. remand, ossia la concessione di una misura cautelare che rinvia l’adozione di un nuovo provvedimento all’amministrazione resistente. La decisione evidenzia come il remand non solo anticipi gli effetti propri di una sentenza di merito, caratteristica tipica delle misure cautelari di tipo anticipatorio, ma comporti, nella maggior parte dei casi, effetti irreversibili che superano la provvisorietà intrinseca di tali provvedimenti.
La pronuncia sottolinea che, quando l’amministrazione adotta un nuovo atto in esecuzione di un rinvio disposto con ordinanza cautelare, il nuovo provvedimento determina un assetto giuridico amministrativo che non può essere annullato retroattivamente (factum infectum fieri nequit). Tale atto, espressione di una rinnovata volontà amministrativa, è autonomo rispetto alla stretta esecuzione della misura cautelare e può condurre all’improcedibilità del ricorso iniziale o alla cessazione della materia del contendere, qualora l’atto adottato soddisfi integralmente la pretesa del ricorrente.
La sentenza chiarisce inoltre che il remand costituisce un esempio dell’atipicità delle misure cautelari disciplinate dall’art. 55 c.p.a., il quale attribuisce al giudice amministrativo un ampio potere di modulare la tutela in relazione alla fattispecie concreta e agli interessi legittimi coinvolti. La funzione del remand è quella di rimettere in gioco l’intero potere decisionale iniziale della pubblica amministrazione, senza pregiudicarne l’esito finale, ma garantendo il rispetto dei principi di diritto stabiliti dal giudice.
Un elemento chiave della sentenza è la distinzione tra un nuovo atto amministrativo che sia meramente confermativo e uno che costituisca una nuova manifestazione del potere decisionale. In quest’ultimo caso, il nuovo atto, pur mantenendo un contenuto dispositivo analogo, può basarsi su una diversa motivazione o su un differente procedimento, trasferendo l’interesse del ricorrente dall’annullamento del primo provvedimento impugnato a quello del nuovo atto adottato.
La decisione ha confermato la sentenza del Tar Lombardia n. 233/2020 e si inserisce in un filone giurisprudenziale già tracciato dalle pronunce del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5662/2023 e sez. V, n. 4820/2022, consolidando il principio secondo cui il remand, sebbene misura cautelare, assume una portata sostanziale tale da risolvere, spesso in modo definitivo, il rapporto controverso. La sentenza ribadisce il ruolo cruciale della fase cautelare nel processo amministrativo, che si caratterizza sempre più per l’attenzione verso il rapporto sostanziale tra privato e pubblica amministrazione, superando la tradizionale centralità dell’atto impugnato.
Pubblicato il 25/11/2024
- 09426/2024REG.PROV.COLL.
- 09475/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9475 del 2020, proposto da – OMISSIS -, rappresentata e difesa dagli avvocati Alberto Luppi, Jacopo D’Auria e Francesco Luppi, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avv. Jacopo D’Auria, sito in Roma, via G. P. Da Palestrina, n. 47;
contro
il Comune di Sirmione (BS), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Erminio Araldi ed Enzo Parini, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avv. Enzo Parini, sito in Roma, via Taro, n. 35;
il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, sezione staccata di Brescia (Sezione prima), n. – OMISSIS -/2020, resa tra le parti.
Visto l’appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sirmione e del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo – Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia;
Viste le memorie delle parti;
Designato relatore il cons. Giuseppe La Greca;
Nessuno per le parti presente all’udienza pubblica del 17 ottobre 2024;
Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1.- Oggetto delle domande caducatorie introdotte dinanzi al T.a.r. con l’originario ricorso e i motivi aggiunti di prime cure erano diversi provvedimenti involgenti la valutazione di compatibilità paesaggistica di opere eseguite in difformità rispetto al permesso di costruire n. 43/2010, con il quale il Comune di Sirmione, previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, aveva autorizzato l’intervento di recupero del sottotetto dell’immobile di cui trattasi, sito in Sirmione, via Primo Maggio, n. 17.
2.- La domanda veicolata con il ricorso introduttivo riguardava – oltre che il prodromico parere – il provvedimento n. 2/2018 nella parte in cui il Comune di Sirmione aveva rigettato parzialmente la domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica con riferimento ai balconi ivi menzionati, per i quali rinviava al precedente verbale n. 67/2010.
2.1.- Avverso detti atti l’originaria ricorrente deduceva, in via di estrema sintesi, che:
– il richiamo al precedente parere sarebbe errato poiché la Commissione per il paesaggio, in quella sede, non avrebbe preso in considerazione il balcone; al più avrebbe dovuto rilevare la presenza di un successivo parere reso all’esito della presentazione di una nuova istanza, del 2015 (n. 209/2015);
– nessuna motivazione sarebbe stata fornita dal Comune a supporto del diniego;
– il balcone contestato non avrebbe determinato interferenze con i valori tutelati dal vincolo sull’area (DM 18 novembre 1955), né si sarebbe interposto ai punti di vista accessibili al pubblico dai quali sarebbe stato possibile godere del panorama del lago di Garda; ancora, la correlata valutazione sarebbe stata disattesa;
– l’intervento riguardante il balcone si sarebbe rivelato paesaggisticamente irrilevante: la Commissione avrebbe dovuto, dunque, dare evidenza dell’istruttoria condotta, in base alla quale riteneva, a fronte di una nuova istanza di compatibilità paesaggistica presentata dalla ricorrente, sostitutiva della precedente, di negare la compatibilità paesaggistica con riferimento al solo balcone;
– molti immobili siti in Comune di Sirmione avrebbero presentato, a seguito dell’esecuzione di interventi di recupero del sottotetto, la medesima balconata perimetrale oggetto dell’istanza di accertamento, costituita dalla vecchia gronda preesistente a cui sarebbe stata, semplicemente, apposta una ringhiera, con conseguente asserita disparità di trattamento rispetto agli immobili limitrofi;
– sarebbe stato omesso il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis l. n. 241 del 1990.
3.- Con un primo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente impugnava la nota n. 12887/2018, con la quale il Comune aveva «rettificato» la precedente certificazione di compatibilità paesaggistica n. 2/2018. Il Comune aveva rilevato che nella precedente autorizzazione paesaggistica, per mero errore materiale, non era stato dato atto che «la realizzazione dei balconi, eseguiti in assenza di autorizzazione paesaggistica e in difformità da quanto assentito con permesso di costruire n. 43/2010 aveva determinato danno ambientale e per tale intervento si imponeva la rimessione in pristino dello stato dei luoghi».
3.1.- Le doglianze avverso tale provvedimento erano così sintetizzabili:
– nel caso di specie non ci si sarebbe trovati al cospetto di un provvedimento di mera rettifica ma in presenza di un vero e proprio atto di autotutela, carente dei presupposti ex artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990, stante la nuova valutazione dei presupposti antitetica alle conclusioni cui il Comune sarebbe pervenuto in precedenza;
– l’illegittimità del parere 43/2017, richiamato dalla nota di rettifica, avrebbe reso illegittima quest’ultima;
– non sarebbero stati ravvisabili i presupposti per la demolizione sulla base delle seguenti considerazioni:
— l’intervento di cui trattasi avrebbe riguardato la mancata parziale demolizione della gronda in cemento armato della copertura del primo piano dell’edificio di proprietà della ricorrente, a cui sarebbe stata apposta soltanto una ringhiera in ferro battuto;
— l’opera non avrebbe dato luogo ad un illecito urbanistico (trattandosi, in tesi, di ‘attività libera’), sarebbe stata priva di rilevanza paesaggistica, non avrebbe dato luogo a difformità rilevante rispetto all’autorizzazione paesaggistica (che avrebbe escluso l’obbligo di variante), sarebbe stata esente da autorizzazione ex d.P.R. n. 31 del 2017 (disciplina, questa, che avrebbe avuto una funzione ‘esplicitatoria’ della normativa previgente);
– sarebbe stata necessaria una motivazione rafforzata volta a indicare la demolizione, in linea col principio di proporzionalità, quale soluzione inevitabile;
– l’attività della Commissione sarebbe stata connotata da difetto di istruttoria: essa avrebbe erroneamente concluso per la demolizione sull’erroneo presupposto che quella fosse la soluzione progettuale voluta dalla ricorrente;
– il parere n. 73/17 sarebbe stato privo di motivazione, considerato che l’opera sarebbe preesistente e l’apposizione della ringhiera avrebbe rispecchiato le opere già autorizzate;
– l’opera non avrebbe violato il presidio vincolistico e la demolizione avrebbe determinato una disparità di trattamento rispetto agli immobili viciniori;
– sarebbe stato illegittimamente omesso il preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del 1990.
4.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il secondo ricorso per motivi aggiunti erano il provvedimento n. 14416/2019 di rigetto dell’istanza di compatibilità paesaggistica (reso all’esito del riesame disposto a seguito del giudizio cautelare dinanzi al T.a.r.), il prodromico parere della Soprintendenza e gli atti correlati.
4.1.- Il provvedimento di diniego era motivato in ragione della necessità di dar luogo al riesame disposto dal T.a.r. del parere espresso dall’apposita Commissione nel quale erano evidenziati, tra gli altri, gli elementi di contrasto con le regole morfologiche e tipologiche del luogo oltre che la presenza di fattori di turbamento ambientale.
4.2.- Avverso detti provvedimenti la ricorrente deduceva doglianze così articolate:
– l’ordinanza cautelare del T.a.r. n. 434 del 2018 avrebbe disposto il riesame limitatamente alla motivazione relativa all’intervento controverso;
– il Comune avrebbe eluso l’obbligo del contraddittorio ed avrebbe operato una integrale riedizione del potere non tenendo in considerazione il precedente parere favorevole poi rettificato;
– il provvedimento si sarebbe rivelato in contraddizione, sotto diversi profili, con i precedenti atti autorizzatori rilasciati dal medesimo Comune e, in particolare, con il certificato di compatibilità paesaggistica n. 2/2018;
– a seguito di una prima dichiarata ammissibilità della domanda originaria della ricorrente sul versante documentale, il Comune avrebbe, poi, ritenuto l’istruttoria incompleta;
– a differenza del parere reso nel 2017, la commissione comunale, chiamata ad esprimersi nuovamente sull’intera pratica di sanatoria, in asserita elusione dell’ordinanza cautelare, avrebbe espresso parere negativo circa la compatibilità paesaggistica degli interventi eseguiti dalla sig.ra – OMISSIS -, rilevando, per ciascuna opera, una dissonanza estetica, ed, infine, rilevando che «la percezione generale del fabbricato, nello stato di fatto, non si rapporta correttamente, a livello visivo e paesaggistico, con l’edificio consolidato circostante»;
– sarebbe stata tecnicamente errata l’affermazione del Comune circa la presenza di un incremento di superficie, trattandosi di opera già esistente (gronda in cemento armato della copertura del primo piano dell’edificio), non demolita, in cui sarebbe stata semplicemente apposta una ringhiera in ferro battuto (l’unico elemento di novità sarebbe stato dato dalle ringhiere le quali non avrebbero determinato aumento di superficie e di volume);
– l’intervento non avrebbe costituito difformità paesaggistica rilevante, non percepibile;
– la motivazione del diniego sarebbe stata meramente apparente avuto riguardo all’oggetto della tutela e il Comune non avrebbe valutato la compatibilità paesistica rispetto all’effettivo grado di sensibilità dell’area;
– la qualificazione dell’intervento quale causa di danno ambientale sarebbe stata in contrasto con la precedente affermazione di compatibilità paesaggistica;
– non avrebbe potuto disporsi la rimessione in pristino ai sensi dell’art. 17, comma 2, d.P.R. n. 31 del 2017 e della disciplina transitoria ivi contenuta: tale disposizione circoscriverebbe il potere di demolizione dell’Amministrazione ai soli casi residuali di incompatibilità assoluta con il vincolo (e, in tal senso, sull’amministrazione sarebbe gravato l’obbligo di una motivazione rafforzata): nel caso di specie avrebbe potuto disporsi la demolizione di soli 7 mq.
5.- Le intimate Amministrazioni si opponevano all’accoglimento delle domande di controparte.
6.- Con sentenza n. – OMISSIS – del 2020, il T.a.r. per la Lombardia, sez. staccata di Brescia, dichiarava improcedibili il ricorso principale e il primo ricorso per motivi aggiunti e rigettava il secondo ricorso per motivi aggiunti.
6.1.- In relazione al ricorso introduttivo e ai primi motivi aggiunti, il T.a.r. dichiarava prive di interesse (e, dunque, improcedibili) le correlate domande caducatorie stante l’adozione del nuovo provvedimento di diniego, frutto di una rinnovata istruttoria.
6.2.- In relazione al secondo ricorso per motivi aggiunti il T.a.r. argomentava che:
– l’ordinamento non contemplerebbe l’esistenza di un c.d. giudicato cautelare;
– le ordinanze propulsive finalizzate al riesame non limiterebbero il potere decisorio dell’Amministrazione, la quale può rideterminarsi integralmente sulla fattispecie concreta sottoposta al suo esame, fermi i «limiti della transitorietà della fase cautelare»;
– sarebbe stato garantito il disposto contraddittorio;
– l’intervento di cui trattasi non sarebbe consistito nella semplice apposizione alla gronda di una ringhiera, bensì nella trasformazione della gronda in balcone, ossia in superficie utile con conseguente aumento di superficie (ciò che non ammetterebbe la sanatoria ex art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004);
– i balconi abusivi non sarebbero il risultato dell’allargamento dei balconcini previsti in progetto, sicché non risponderebbe al vero che l’incremento di superficie sarebbe qui inferiore al 25% dell’area di sedime del fabbricato: in ogni caso, l’art. 167, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 42 del 2004, nell’elencare gli interventi esclusi dall’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, indicherebbe quelli che hanno determinato un incremento della superficie ovvero del volume rispetto a «quelli legittimamente realizzati»; i balconcini di cui al progetto originario, poiché non realizzati, non rileverebbero al fine della verifica della sanabilità dell’abuso;
– il suindicato limite quantitativo del 25% dell’area di sedime servirebbe a discernere gli abusi minori non assoggettati a sanzione ripristinatoria, dagli abusi a cui, viceversa, si applica la demolizione: una volta che l’opera abusiva sia stata ritenuta non suscettibile di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, la riduzione in pristino deve essere totale e non solo della parte che sarebbe sufficiente a trasformare l’opera sine titulo in un abuso minore.
6.3.- Il T.a.r. assorbiva le ulteriori doglianze.
7.1.- Avverso la predetta sentenza ha interposto appello l’originaria ricorrente, la quale ne ha chiesto la riforma sulla base di doglianze così articolate:
1) Omissione di pronuncia; erronea ed insufficiente motivazione; erronea valutazione dei fatti; violazione art. 35, comma 1, lett. c), e 85, comma 9 c.p.a.; violazione artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c.; violazione dei principi di effettività della tutela giurisdizionale; ingiustizia. Sostiene l’appellante che sarebbe erronea la declaratoria di improcedibilità del ricorso introduttivo e dei primi motivi aggiunti sul rilievo che:
– l’interesse sarebbe radicato dall’eventuale caducazione dell’ultimo diniego il quale avrebbe fatto rivivere il diniego precedente;
– il T.a.r. avrebbe dovuto confrontare il contenuto concreto dei diversi provvedimenti emessi, per qualificarne la natura e stabilirne gli effetti;
– premesso che l’ultimo provvedimento impugnato non si sarebbe espresso sul riesame della certificazione già rilasciata, né sui presupposti per il suo annullamento o la sua revoca, quand’anche si volesse individuare un rapporto di ‘conferma’, questo non potrebbe che essere individuato tra il secondo e il terzo provvedimento;
– solo un compiuto esame e una determinazione della natura effettiva del provvedimento impugnato con il primo ricorso per motivi aggiunti (rettifica o annullamento), avrebbero – in tesi – consentito di esaminare gli effetti del suo annullamento e, quindi, di valutare la persistenza dell’interesse al ricorso;
– sussisterebbe l’interesse allo scrutinio della domanda di annullamento proposta con il primo ricorso per motivi aggiunti, perché dall’accoglimento di quest’ultima deriverebbe la piena efficacia della certificazione di compatibilità paesaggistica n. 2/2018;
2) Violazione artt. 97 e 113 Cost. e artt. 55 e 114 c.p.a.; insufficiente e contraddittoria motivazione; erronea valutazione delle risultanze documentali; nullità per violazione e/o elusione dell’ordinanza e/o del giudicato cautelare; violazione artt. 1, 3, 7, 21-septies, l. 241 del 1990; violazione dei principi del contraddittorio, del corretto procedimento, di trasparenza, buona fede e leale collaborazione; motivazione apparente e sviamento. Sostiene l’appellante che:
– il contenuto del provvedimento cautelare imponeva all’Amministrazione di pronunciarsi solo nei limiti ivi indicati (causazione del danno ambientale), sicché sarebbe illegittima la riattivazione del giudizio di valutazione di ammissibilità dell’istanza e completezza della documentazione (il Comune non si sarebbe limitato a riesaminare la motivazione contenuta nei provvedimenti gravati avendo riguardo ai profili di illegittimità individuati dal T.a.r., ma avrebbe rinnovato le fasi, autonome e presupposte, della valutazione di compatibilità paesaggistica, alla ricerca di motivi di inammissibilità dell’istanza, non evidenziati nei due precedenti provvedimenti);
– la «formalistica» richiesta di osservazioni non avrebbe soddisfatto il contraddittorio imposto dal T.a.r., così come non sarebbe stata sufficiente a valutare la percepibilità visiva il mero accesso all’abitazione della ricorrente;
3) Omissione di pronuncia; insufficiente e contraddittoria motivazione; erronea valutazione delle risultanze documentali; carenza ed eccesso di potere sotto vari profili; violazione di legge (artt. 1 e 3, l. n. 241 del 1990; artt. 146, 149, 167 e 181 d.lgs. n. 42 del 2004, D.M. 18.11.1955, DGR Lombardia n. VIII/7308, nota 22 gennaio 2010 del Ministero per i beni e le attività culturali; artt. 2, 3, 14, 17 e all. A e B, d.P.R. n. 31 del 2017; nota MIBACT n. 42 del 2017 – n. 21322); violazione dei principi di ragionevolezza, adeguatezza, proporzionalità e corretto contemperamento degli interessi; disparità di trattamento. Sostiene l’appellante che:
– in relazione all’affermato (dal T.a.r.) aumento di superficie, la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare l’assorbente profilo dell’irrilevanza paesaggistica della ringhiera: il supposto aumento di superficie sarebbe rappresentato dalla vecchia e preesistente gronda in cemento dell’originario edificio di proprietà – OMISSIS -, che, tramite l’apposizione della ringhiera, sarebbe stata trasformata nella balconata perimetrale dell’immobile, paesaggisticamente irrilevante;
– nell’affermare che la gronda sia stata trasformata in balcone, con conseguente creazione di superficie utile, il T.a.r. avrebbe sovrapposto profili urbanistici a quelli paesaggistici;
– le ringhiere non sarebbero idonee a creare superficie e volume;
– se è vero che i balconi avrebbero dovuto avere un’estensione diversa, rispetto al realizzato, sarebbe altrettanto vero che ciò non avrebbe privato di efficacia l’autorizzazione paesaggistica con la quale era stata assentita una superficie pari a mq. 10,1 (e la verifica del Comune avrebbe dovuto limitarsi alla parte in aggiunta rispetto all’autorizzato, stante il tenore dell’art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004 che farebbe riferimento ai lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione rilasciata);
– le terrazze, i balconi e le logge sarebbero espressamente escluse dal computo delle superfici utili, a mente dell’art. 8.4.4. delle NTA del PGT vigente;
4) Omessa pronuncia; erronea e insufficiente motivazione; erronea valutazione dei presupposti in fatto ed in diritto; violazione di legge (artt. 1 e 3, l. n. 241 del 1990; artt. 136, 146, 149, 167, d.lgs. n. 42 del 2004 e artt. 2, 3, 14, 17 e all. A e B, d.P.R. n. 31 del 2017; circolare MIBACT n. 42 del 2017); contraddittorietà e illogicità manifeste; violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza; difetto di istruttoria e di motivazione.
Sostiene l’appellante che sarebbe errata l’affermazione del T.a.r. secondo cui il superamento del limite del 25% di superficie da parte dei balconi impedirebbe di limitare l’ordine di ripristino ad una parte dell’intervento. Non si sarebbe tenuto conto, infatti, della precedente determinazione favorevole del Comune attestante l’assenza di danno ambientale e sarebbe stata violativa della disciplina transitoria del d.P.R. n. 31 del 2017, d.P.R. che circoscriverebbe il potere di demolizione dell’amministrazione, per il caso di interventi soggetti ad autorizzazione semplificata, ai soli casi residuali di incompatibilità assoluta con il vincolo, non rimediabile con prescrizioni: nel caso di specie il parametro del 25% sarebbe stato sforato per 7 mq.
7.2.- L’appellante ha riproposto, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., i motivi non esaminati dal T.a.r.
8.- La traiettoria argomentativa delle difese del Comune di Sirmione, costituitosi in giudizio, è stata così tracciata:
– sarebbe corretta la declaratoria di improcedibilità del ricorso introduttivo e del primo ricorso per motivi aggiunti in quanto l’ultimo provvedimento, reso all’esito del c.d. remand del T.a.r., avrebbe natura di conferma c.d. ‘propria’ e avrebbe sostituito il precedente (sicché nessun interesse sarebbe residuato sull’impugnazione della certificazione n. 2/2018 sia nella versione originaria, sia in quella rettificata);
– sarebbe insussistente un c.d. giudicato cautelare e l’ordinanza propulsiva avrebbe disposto il riesame senza vincoli circa l’esito finale;
– l’appellante non avrebbe ottemperato all’obbligo di demolizione della gronda prevista in progetto, trasformata in balconi calpestabili e di notevoli dimensioni (intervento che sarebbe estraneo alle ipotesi di c.d. edilizia libera);
– la ringhiera avrebbe reso la gronda calpestabile introducendo una difformità rilevante rispetto all’autorizzazione paesaggistica e costituirebbe elemento di compromissione e percepibile modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto;
– il d.P.R. n. 31 del 2017 riguarderebbe soltanto l’integrazione o sostituzione di infissi, cornici, parapetti, ciò che non è nel caso di specie trattandosi di un nuovo inserimento;
– l’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004 ammette il riconoscimento della compatibilità paesaggistica in casi eccezionali in mancanza di nuovi volumi o superfici;
– non può invocarsi nel caso di specie il limite del 25% (il quale sarebbe pure superato) indicato dalla circolare ministeriale n. 33 del 2009 non sussistendo l’ipotesi dell’intervento «su fabbricati legittimamente esistenti», considerato che la gronda avrebbe dovuto essere demolita e, ancora, che sarebbe intervenuta una modificazione delle caratteristiche peculiari del paesaggio.
9.- Le posizioni delle parti sono state ribadite con ulteriori scritti difensivi depositati in prossimità dell’udienza.
10.- All’udienza pubblica del 17 ottobre 2024 l’appello è stato trattenuto in decisione.
11.- L’appello, alla stregua di quanto si dirà, non è meritevole di accoglimento.
12.- Con il primo motivo di gravame l’appellante ha contestato l’erroneità della declaratoria di improcedibilità del ricorso di primo grado e del primo ricorso per motivi aggiunti, statuita dal T.a.r., in ragione di un’addotta persistenza dell’interesse alla caducazione dei provvedimenti ivi impugnati.
12.1.- Il motivo è infondato.
12.2.- Premesso che è consolidato in giurisprudenza il criterio secondo cui la qualificazione di un atto amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, è del tutto evidente che il provvedimento che ha definito l’intera vicenda, pur emanato in esecuzione dell’ordinanza propulsiva del T.a.r., abbia voluto rivedere, nella sua complessiva configurazione, l’intero rapporto. In tal senso, sul piano sostanziale, esso è stato correttamente qualificato quale conferma propria stante la nuova istruttoria posta alla base di esso; sul versante processuale, la nuova decisione non poteva che dar luogo alla sopravvenuta carenza di una delle condizioni dell’azione – l’interesse – originariamente sottesa alle pregresse domande di annullamento.
La tesi secondo cui il primo provvedimento avrebbe dovuto costituire parametro di raffronto con l’ultimo provvedimento e secondo cui la caducazione del primo avrebbe potuto rendersi ‘spendibile’ per il resto dei segmenti procedimentali, si mostra suggestiva ma non sincronizzabile con il complessivo assetto della vicenda, da guardarsi nella prospettiva della utilitas discendente dalla eventuale caducazione, qui assente in ragione dell’effetto sostitutivo determinato dall’ultimo provvedimento.
Un annullamento dell’ultimo diniego non avrebbe, in ipotesi, fatto rivivere – come affermato dall’appellante – il provvedimento precedente ma avrebbe determinato l’obbligo dell’amministrazione di rideterminarsi, in via conformativa, secondo i principi espressi nella (ipotetica) sentenza di accoglimento del ricorso.
13.- Infondato è pure il secondo motivo, volto a valorizzare la presenza di un c.d. giudicato cautelare e la difformità del provvedimento rispetto ai dettami dell’ordinanza propulsiva del T.a.r.
13.1.- Deve essere ribadito quanto già affermato da questa Sezione (sentenza n. 5662 del 2023), ossia che «la concessione della misura cautelare del rinvio a nuova determinazione dell’amministrazione resistente (remand) non solo anticipa alla sede cautelare gli effetti propri di una pronuncia di merito — come accade per ogni provvedimento cautelare c.d. anticipatorio — ma nella maggior parte dei casi comporta che gli effetti anticipatori non abbiano carattere provvisorio, come dovrebbe essere proprio delle misure cautelari, ma, per la natura delle cose, irreversibili; infatti la nuova determinazione dell’amministrazione assunta proprio in esecuzione del rinvio disposto in sede cautelare con l’ordinanza propulsiva per il principio factum infectum fieri nequit dà vita ad un nuovo assetto del rapporto amministrativo sorto dal precedente e impugnato provvedimento, quante volte l’amministrazione effettui una nuova valutazione ed adotti un atto espressione di nuova volontà di provvedere, che costituisca pertanto un nuovo giudizio, autonomo e indipendente dalla stretta esecuzione della pronuncia cautelare, con la conseguenza che il ricorso diviene improcedibile ovvero si ha cessazione della materia del contendere laddove si tratti di un atto con contenuto del tutto satisfattivo della pretesa azionata (cfr. ad es. Cons. Stato sez. V, 14 giugno 2022, n.4820).
Il c.d. remand (id est, accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame) costituisce manifestazione della atipicità della tutela cautelare, ormai consolidata nell’art. 55 c.p.a., in cui non è presente riferimento alcuno a tipologie specifiche ed esclusive di provvedimenti cautelari, in ragione dell’attribuzione al giudice amministrativa, dell’ampio potere di adottare tutte le misure idonee ad assicurare in via provvisoria gli effetti della decisione sul ricorso (art. 55, comma 1, c.p.a.), il giudice della tutela può dunque modulare la misura in rapporto alla fattispecie concreta in esame e alla natura dell’interesse legittimo (di contenuto oppositivo o pretensivo) fatto valere in giudizio; è palese l’intento del legislatore, con l’esplicito superamento della tipicità delle misure cautelari, di assecondare fin da tale fase il progressivo spostamento del contenuto proprio del giudizio, non più incentrato sull’atto bensì sul rapporto sottostante tra privato e p.a.; in tale prospettiva, il c.d. remand costituisce una tecnica di tutela cautelare che si caratterizza proprio per il fatto di rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto impugnato, restituendo alla p.a. l’intero potere decisionale iniziale, senza pregiudicarne il risultato finale. Il nuovo atto, quando non sia meramente confermativo, costituendo una (rinnovata) espressione della funzione amministrativa, porta a una pronuncia di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, ove abbia contenuto satisfattivo della pretesa azionata dal ricorrente, oppure di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse; e, infatti, l’interesse del ricorrente è trasferito dall’annullamento dell’atto inizialmente impugnato all’annullamento dell’atto che lo ha interamente sostituito a seguito del riesame. In sede di riedizione del potere, peraltro, l’Amministrazione, fermo restando il dovere di conformarsi ai principi di diritto enucleati dal giudice, è libera di adottare un atto con identico contenuto dispositivo ma basato su una diversa motivazione o adottato all’esito di un differente procedimento».
Nessuna violazione del decisum cautelare può, dunque, ritenersi qui sussistere nella rivalutazione del complessivo assetto del rapporto, né, in tal senso, la decisione dell’amministrazione può dirsi in contrasto con il contenuto anche letterale dell’ordinanza propulsiva, la quale, pur richiamando il danno ambientale, ipotizzava, nelle sue linee, una riedizione del potere sul complessivo giudizio paesaggistico.
13.2.- In relazione al censurato insufficiente contradittorio procedimentale successivo all’ordinanza cautelare, in disparte la genericità sostanziale della censura, le attività compiute dall’Amministrazione (cfr. docc. prodotti in primo grado dalla parte pubblica in data 15 marzo 2019) hanno, all’evidenza, soddisfatto le esigenze di partecipazione, correttamente considerate dal T.a.r. («Con riferimento al contraddittorio procedimentale, che pure ai sensi dell’ordinanza cautelare di questo Tribunale doveva essere assicurato in fase di riesame, va rilevato come, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, risulta essere stato garantito», § 4.3.1 della sentenza impugnata).
14.- Anche il terzo motivo d’appello, volto ad evidenziare la carenza di presupposti per il diniego di autorizzazione paesaggistica, non è meritevole di positivo apprezzamento.
14.1.- In primo luogo va rilevata la correttezza dell’affermazione, in fatto, del T.a.r., il quale ha evidenziato che «contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, l’intervento di cui si discute non è consistito nella semplice apposizione alla gronda di una ringhiera, bensì nella trasformazione della gronda, che non è calpestabile, in balcone ovverosia in superficie utile. Vi è stato indubbiamente un aumento di superficie». Ogni tentativo di isolare l’attenzione sulla ringhiera, esperito pure in grado d’appello dalla parte privata, va, dunque, disatteso risultando l’intervento avere una connotazione ben più ampia rispetto alla mera collocazione della ringhiera. E’ vero che la gronda preesisteva ma è altrettanto vero ed incontestato che essa avrebbe dovuto essere demolita.
14.2.- Quanto all’applicazione del limite del 25 per cento fissato dalla circolare ministeriale n. 33 del 2009, in linea con il dato normativo il T.a.r ha respinto il correlato motivo di doglianza. Operando una corretta applicazione della disciplina di riferimento, il T.a.r. ha condivisibilmente evidenziato che «come chiarito anche dalla circolare ministeriale del 26.06.2009, anche i balconi concorrono a formare superficie utile aggiuntiva se eccedono il limite del 25% dell’area di sedime del fabbricato a cui accedono. Il che, come documentato in atti, è proprio la situazione che ricorre nel caso di specie, posto che i balconi si estendono per 32 mq. e l’area di sedime del fabbricato residenziale è pari a mq. 110. 4.4.2. Né può accedersi alla tesi della signora – OMISSIS – secondo cui il suvvisto limite quantitativo non sarebbe stato superato, dal momento che il progetto originariamente assentito prevedeva la realizzazione di tre balconcini, con la conseguenza che l’incremento di superficie, realizzato tramite la trasformazione della gronda in balcone, sarebbe inferiore al 25% dell’area di sedime del fabbricato. Dal raffronto delle tavole progettuali emerge con chiarezza che per dimensioni, caratteristiche e ubicazione si tratta di opere diverse. I balconi abusivi non sono, cioè, il risultato dell’allargamento dei balconcini previsti in progetto; l’apposizione della ringhiera alla gronda non costituisce in alcun modo inizio della realizzazione dei balconcini regolarmente assentiti. In ogni caso risulta dirimente il dato testuale: l’articolo 167, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 42/2004, nell’elencare gli interventi esclusi dall’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica indica quelli che hanno determinato un incremento della superficie ovvero del volume rispetto a “quelli legittimamente realizzati”. I balconcini di cui al progetto originario non sono stati realizzati, per cui essi non rilevano al fine della verifica della sanabilità dell’abuso».
15.- Parimenti infondato è il quarto motivo d’appello.
15.1.- Non può giungersi ad un «frazionamento» dell’abuso ai fini di un trattamento più favorevole come invece invocato dall’appellante, la quale ha ritenuto potersi dar luogo, nel caso di specie, alla demolizione di soli 7 mq.: la disciplina di riferimento impone la rimozione totale e non solo della porzione idonea a determinare la riduzione dell’edificazione abusiva ad un’ ‘opera minore’ nell’accezione voluta dal d. P.R. n. 31 del 2017 invocato dall’appellante (in disparte la dubbia rilevanza del medesimo d.P.R. quanto al dato oggettivo delle opere in argomento).
Va rilevato, in definitiva, che:
– in tal senso non può non rilevarsi che l’intervento contestato correttamente è stato considerato paesaggisticamente rilevante (e non di lieve entità ex d. P.R. n. 31 del 2017, disciplina che, a cominciare dal suo campo di applicazione, come condivisibilmente evidenziato dal Comune, è estranea, al caso di specie), dovendosi valutare nel suo complesso (e non per singole porzioni);
– è infondato il dedotto difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati, non sussistendo obblighi di motivazione rafforzata, in presenza anche di un obbligo di integrale ripristino dello stato dei luoghi, conforme alla regola di proporzionalità.
16.- Può adesso passarsi allo scrutinio dei motivi del secondo ricorso per motivi aggiunti non esaminati dal T.a.r. e qui riproposti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., così rubricati:
2) Nullità per violazione e/o elusione del giudicato cautelare; eccesso di potere per contraddittorietà manifesta; violazione artt. 1, 3, 7, 21-quinquies, 21-septies e 21-nonies l. n. 241 del 1990; violazione artt. 146 e 167, comma quarto, d.lgs. n. 42 del 2004; eccesso di potere per travisamento dei presupposti in fatto ed in diritto; violazione dei principi del corretto procedimento; difetto di motivazione e di istruttoria; sviamento. Sostiene la parte privata che l’Amministrazione comunale, attraverso il disposto riesame, avrebbe «rivisto» completamente la propria posizione, ritenendo, addirittura, l’intervento non ammissibile a sanatoria, senza, tuttavia, intervenire, con procedimento di secondo grado in autotutela, sulle precedenti determinazioni già emesse;
3) Carenza di potere; eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà manifesta e per travisamento dei presupposti di fatto; sviamento; violazione artt. 1 e 3, L 241/1990; violazione del combinato disposto degli artt. 146, 149, 167 e 181 d.lgs. n. 42 del 2004, D.M. 18.11.1955, DGR Lombardia n. VIII / 7308, nota MIBACT 22.01.2010; violazione artt. 2, 3, 14, 17 e all. A e B, d.P.R. n. 31 del 2017; violazione nota MIBACT n. 42 del 2017 – prot. n. 21322; violazione dei principi di ragionevolezza, adeguatezza, proporzionalità e corretto contemperamento degli interessi; motivazione; disparità di trattamento. Sostiene la parte privata che:
– il parere paesaggistico non avrebbe tenuto conto dell’effettivo contenuto dei vincoli presenti in zona ma avrebbe espresso valutazioni astratte ed arbitrarie, e avrebbe preteso il rispetto di esigenze estetiche, non oggetto di tutela, il tutto con una (asserita) motivazione apparente;
– sarebbe stata omessa la valutazione di compatibilità paesistica all’effettivo grado di sensibilità dell’area;
– l’ingombro visivo, a cui gli Enti preposti alla tutela del vincolo avrebbero fatto riferimento, sarebbe rimasto invariato;
– l’intervento eseguito dalla ricorrente sarebbe perfettamente assimilabile ad altri presenti in zona e, quindi, contrariamente a quanto sostenuto, si inserirebbe, perfettamente, nel contesto edificato;
– il diniego determinerebbe una oggettiva disparità di trattamento rispetto agli immobili limitrofi.
16.1.- I due motivi, i quali per la loro omogeneità sostanziale possono essere trattati congiuntamente, sono entrambi infondati.
16.2.- In relazione alla necessità dell’adozione di un provvedimento di secondo grado invocato dalla originaria ricorrente, la doglianza è priva di consistenza in considerazione della peculiare connotazione del procedimento che ha dato luogo al provvedimento impugnato con il secondo ricorso per motivi aggiunti. Esso, come si è detto, discende da apposita ordinanza propulsiva del T.a.r. e la riedizione del potere, nel caso di specie, non comportava l’obbligo di una formale (ri)valutazione di opportunità/legittimità dei precedenti provvedimenti (con conseguente adozione un provvedimento di ritiro), quanto l’adozione di un nuovo motivato provvedimento, come correttamente avvenuto. In tal senso, per completezza va detto che la motivazione posta a base della compensazione delle spese del primo grado del giudizio, in cui il T.a.r. accertava, ai fini della c.d. soccombenza virtuale, l’illegittimità della rettifica adottata «in luogo di un provvedimento di secondo grado adeguatamente motivato», è contraddittoria rispetto alle premesse e non risulta argomentata, e, comunque, si rivela anche irrilevante.
16.3.- In relazione al contenuto del parere, deve essere premesso, in termini generali, che il rilascio dei nulla-osta di compatibilità paesaggistica della Soprintendenza riguardanti aree soggette a vincolo paesaggistico, storico-artistico o archeologico, sono espressione di discrezionalità tecnica suscettibile, come tale, di sindacato in sede giurisdizionale soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta ovvero conclamato errore di fatto. Il parere, nel caso di specie, risulta compiutamente argomentato circa le ragioni di incompatibilità del manufatto con l’assetto vincolistico ivi descritte, né è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo intrinseco in ordine alle valutazioni tecniche opinabili, in quanto ciò si tradurrebbe nell’esercizio da parte del suddetto giudice di un potere sostitutivo spinto fino a sovrapporre la propria valutazione a quella dell’amministrazione; fermo però restando che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile in sede giurisdizionale il controllo di ragionevolezza, logicità, coerenza ed attendibilità (in tal senso, Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 406 del 2021).
Il complessivo richiamo all’incremento di suolo calpestabile eccedente i limiti massimi, alla configurazione dell’intervento stesso come ristrutturazione edilizia, all’individuazione di ragioni di contrasto con le regole morfologiche e tipologiche del luogo, rendevano compiutamente motivato il provvedimento.
16.4.- Anche la censurata disparità di trattamento deve essere disattesa, considerato che «la disparità di trattamento non costituisce vizio invocabile a fronte di una questione di interpretazione e corretta applicazione della legge» (Cons. Stato, Ad. plen., n.1 del 2020).
16.5.- I motivi dell’originario secondo ricorso per motivi aggiunti non esaminati in primo grado e qui riproposti vanno, dunque, rigettati, ciò che determina l’integrale reiezione del medesimo secondo ricorso per motivi aggiunti.
17.- Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate avuto riguardo al complessivo assetto della vicenda.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione sesta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo rigetta; rigettati i motivi riproposti ex art. 101, comma 2, c.p.a., rigetta integralmente il secondo ricorso per motivi aggiunti.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 ottobre 2024 con l’intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere
Lorenzo Cordi’, Consigliere
Giuseppe La Greca, Consigliere, Estensore
|
||
|
||
L’ESTENSORE |
IL PRESIDENTE |
|
Giuseppe La Greca |
Carmine Volpe |
|
|
||
|
||
|
||
|
||
|
IL SEGRETARIO