Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8591 del 28 ottobre 2024, si pronuncia sulla corretta applicazione della tolleranza costruttiva, sancita dall’art. 34-bis del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia), in relazione agli interventi edilizi e ai provvedimenti di ripristino dello stato dei luoghi a seguito di abusi edilizi. Secondo la decisione, la tolleranza costruttiva del 2% prevista dall’art. 34-bis si applica esclusivamente alle difformità realizzate nell’ambito della costruzione di edifici oggetto di un progetto edilizio approvato, ma non alle modifiche derivanti da interventi di ripristino a seguito di abusi edilizi. Tale distinzione è cruciale, in quanto la tolleranza costruttiva non può giustificare scostamenti significativi dai progetti di rimessa in pristino disposti a seguito di provvedimenti repressivi.

Nel caso esaminato, il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del TAR Liguria, che aveva escluso l’applicabilità della tolleranza costruttiva per le difformità derivanti da opere edilizie eseguite per ripristinare la legalità urbanistica a seguito di un abuso edilizio. La Corte ha sottolineato che l’art. 34-bis si riferisce unicamente agli interventi eseguiti in conformità ai titoli abilitativi edilizi e non può essere applicato agli scostamenti che derivano da interventi ripristinatori, in quanto l’obiettivo di tali interventi è la regolarizzazione della situazione e non la semplice gestione delle tolleranze costruttive.

Inoltre, la Corte ha ribadito che la disciplina delle tolleranze costruttive si applica esclusivamente alle “singole unità immobiliari” e non all’intero edificio, come chiarito dal legislatore nella stessa norma. Pertanto, anche qualora si superi la soglia del 2% nelle misure relative a una singola unità immobiliare, tale scostamento non configura automaticamente una violazione, a meno che non si tratti di modifiche sostanziali che incidano sulla funzionalità o sull’integrità dell’unità stessa. La Corte ha anche richiamato precedenti giurisprudenziali, tra cui le sentenze n. 3051 e n. 2952 del 2024, che hanno confermato l’applicabilità della tolleranza costruttiva solo per le lievi difformità da un progetto approvato, senza pregiudicare la sua integrità.

L’orientamento giuridico consolidato, infatti, stabilisce che la tolleranza costruttiva riguarda solo quegli scostamenti che non alterano in modo significativo le caratteristiche originarie del progetto edilizio approvato, come nel caso di variazioni minori nelle dimensioni o nelle finiture che non pregiudicano l’agibilità dell’immobile o la sua conformità alle normative urbanistiche.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha confermato che la tolleranza costruttiva non si applica agli scostamenti derivanti da interventi di ripristino a seguito di abusi edilizi, poiché tali interventi hanno un obiettivo diverso, ossia il recupero della legalità urbanistica, e non rientrano nell’ambito delle modifiche accettabili nel contesto di un progetto edilizio autorizzato.

Pubblicato il 28/10/2024

  1. 08591/2024REG.PROV.COLL.
  2. 03583/2024 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3583 del 2024, proposto dalla società – OMISSIS -, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Simone Massacano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

il Comune di Albenga, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Gaggero, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, Sez. Seconda, n. – OMISSIS -/2024, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Albenga;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista l’istanza di passaggio in decisione depositata dal Comune di Albenga in data 8 ottobre 2024;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2024 il consigliere Giancarlo Carmelo Pezzuto e udito per la parte appellante l’avvocato Simone Massacano;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

  1. La – OMISSIS – (di seguito anche – OMISSIS – o la società) impugna la sentenza in epigrafe, con la quale il T.a.r. per la Liguria ha respinto il ricorso dalla medesima proposto avverso i provvedimenti con cui il Comune di Albenga ha disposto la sospensione di una SCIA finalizzata ad eseguire delle opere su alcuni immobili acquistati dalla società nel 2003 e realizzati all’inizio degli anni ’80 dal precedente proprietario, il quale nel 1986 ne aveva chiesto la sanatoria con sei istanze separate, accolte nel 1999 dall’ente locale.
  2. Secondo quanto premesso dall’appellante, nel 2017 gli immobili in questione erano stati concessi in locazione ad una cooperativa sociale – onlus, presso la quale nell’agosto dello stesso anno la Polizia locale aveva eseguito un sopralluogo riscontrando molteplici differenze tra lo stato di fatto e la rappresentazione degli immobili contenuta agli atti dei relativi procedimenti, ed in particolare:

– un nuovo manufatto con tamponamento in muratura e copertura in lamiera grecata avente superficie di circa 5,70 mq collegato all’immobile da una porta e dotato di impianti;

– una generale discordanza dimensionale del manufatto rispetto a quanto rappresentato nella documentazione relativa ai pregressi titoli edilizi e ad un nuovo titolo richiesto, il cui procedimento non era ancora concluso, concernente permesso di costruire per lavori di demolizione e ricostruzione con ampliamento ai sensi degli artt. 6 e 7 della l.r. n. 49/2009;

– altezze in diversi locali sensibilmente inferiori a quelle rappresentate nelle pratiche edilizie precedenti;

– modifiche alle finestrature dell’unità immobiliare a destinazione abitativa e alla distribuzione interna rispetto agli elaborati a suo tempo prodotti;

– demolizione di un box e realizzazione al suo posto di una tettoia collegata al fabbricato principale.

Nel corso del sopralluogo – nel cui contesto, peraltro, non risultava possibile accedere ad alcuni locali per mancata disponibilità delle relative chiavi – emergeva, inoltre, che il progetto di demolizione e ricostruzione con ampliamento nel frattempo presentato dalla società, innanzi richiamato, riportava tra i lavori da eseguire anche il collegamento con la rete fognaria, allo stato indicato come inesistente.

Nel medesimo contesto emergeva anche che la relazione tecnica contenuta nello stesso progetto definiva l’intero complesso come “incongruo” per motivazioni statiche in quanto i manufatti esistenti non risultavano conformi alle normative di settore, energetiche ed architettoniche.

A seguito di tale attività il Comune avviava un procedimento finalizzato all’annullamento in autotutela delle sei concessioni edilizie in sanatoria rilasciate nel 1999, all’esito del quale annullava detti titoli con ordinanza n. 83/2018.

La società impugnava detto provvedimento innanzi al T.a.r. Liguria, il quale accoglieva il ricorso con sent. n. 935/2019; in esecuzione di tale pronuncia il Comune ordinava alla società la rimessione in pristino degli immobili in conformità ai titoli in sanatoria a suo tempo rilasciati; con SCIA del 14 dicembre 2021 la – OMISSIS – comunicava al Comune l’avvio delle opere in tal senso necessarie e il 17 gennaio 2022, sempre secondo quanto premesso dall’appellante, aveva luogo un incontro informale tra il responsabile del procedimento ed il progettista, al cui esito la società si determinava ad avviare i lavori.

Con nota n. 3495 del 26 gennaio 2022 l’Amministrazione chiedeva ulteriori documenti comunicando nel contempo che le opere oggetto della citata SCIA non costituivano puntuale adempimento dell’ordinanza di ripristino.

La società presentava le sue osservazioni rilevando, tra l’altro, la tardività della nota comunale, essendo trascorsi più dei 30 gg. all’uopo previsti.

Con nota n. 14890 del 28 marzo 2022 il Comune sospendeva la SCIA in attesa delle integrazioni richieste, assegnando alla società il termine di 30 giorni per provvedere.

Con nota del 29 aprile 2022 la – OMISSIS – diffidava l’Amministrazione a concludere il procedimento con un provvedimento espresso; il Comune, con successiva nota n. 26462 del 31 maggio 2022, prendeva atto che la soluzione progettuale proposta, pur non comportando il fedele ripristino del piano volumetrico del fabbricato assentito, poteva considerarsi, con delle ulteriori precisazioni, sostanzialmente satisfattiva dell’interesse pubblico alla rimozione degli abusi ma rilevava l’inapplicabilità nella fattispecie della tolleranza costruttiva di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 – ritenuta utilizzabile unicamente in presenza di un titolo abilitativo preventivo all’intervento e non in caso di immobili oggetto di sanatoria – e che in ogni caso la SCIA era necessaria limitatamente alle opere non interessate dalle necessità ripristinatorie, per le quali, peraltro, sarebbe stata comunque necessaria nel caso di specie anche l’autorizzazione paesaggistica; nella circostanza l’ente locale reiterava, altresì, la richiesta di integrazione documentale, confermando nelle more la sospensione della SCIA.

  1. L’ulteriore ricorso giurisdizionale proposto avverso tali atti veniva respinto dal T.a.r. per la Liguria con la sentenza qui avversata nel presupposto secondo il quale, in sintesi, è pur vero che il Comune ha disposto la sospensione della SCIA oltre il termine di 30 giorni dal deposito ma nel caso di specie l’ente locale, “stante la diversa conformazione del sedime planimetrico come rappresentata nei titoli in sanatoria”, ha ritenuto che l’intervento proposto non avrebbe costituito puntuale adempimento dell’ordinanza di rimessione in pristino n. 291/2020 e che, pertanto, era necessaria l’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di immobile soggetto a vincolo; inoltre, secondo il primo giudice, correttamente il Comune aveva ritenuto le tolleranze costruttive del 2% di cui al d.P.R. n. 31/2017 non applicabili con riferimento agli interventi di rimessione in pristino a seguito di provvedimenti repressivi, tenuto conto anche del fatto che, in ogni caso, la società non aveva fornito la prova che le difformità riscontrate rientrassero in tale limite percentuale.
  2. La società impugna detta pronuncia affidandosi ai motivi di seguito sinteticamente riepilogati:
  3. il TAR avrebbe errato nel ritenere l’inapplicabilità della tolleranza del 2% anche agli interventi della specie ai sensi dell’art. 34-bis del d.P.R. n. 380/2001 e dell’allegato A al d.P.R. n. 31/2017; non sarebbe inoltre necessaria nella fattispecie un’autorizzazione paesaggistica;
  4. il TAR avrebbe errato anche nel ritenere che la ricorrente non avesse fornito la prova del contenimento degli scostamenti nei limiti del 2%, trattandosi di statuizione emessa in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non avendo mai il Comune contestato il superamento di tale soglia e non risultando la questione oggetto di contestazione; inoltre il primo giudice non si sarebbe espresso sull’ulteriore doglianza concernente l’asserita illegittimità delle sospensione della SCIA sine die;

III. il TAR non avrebbe adeguatamente considerato il secondo motivo di ricorso, con il quale la società aveva contestato il superamento del termine di 30 giorni dalla presentazione della SCIA ai sensi dell’art. 19 della legge n. 241/1990, ritenendo che la sospensione della SCIA medesima era stata disposta in ragione delle difformità riscontrate e della necessità del parere paesaggistico, che a parere della società, come innanzi già ricordato, non sarebbe nel caso di specie necessario trattandosi di scostamenti contenuti entro il 2%;

  1. in sede di appello vengono inoltre riproposti i motivi dedotti in primo grado asseritamente rimasti assorbiti ed in estrema sintesi concernenti: il superamento del termine dei 30 giorni dalla presentazione della SCIA; la sospensione sine die della SCIA medesima; la mancata motivazione da parte dell’Amministrazione sulle osservazioni formulate dalla società nel corso del procedimento; l’illegittimità dei provvedimenti comunali laddove richiedono l’autorizzazione paesaggistica per interventi di demolizione delle opere abusive e di rimessa in pristino rispetto a quanto assentito con i titoli edilizi in sanatoria; l’erronea applicazione da parte del Comune delle norme che consentirebbero anche nel caso di specie la tolleranza di difformità nei limiti del 2%.
  2. Il Comune si è costituito in giudizio confutando analiticamente le tesi di controparte e sostenendo, in estrema sintesi, che:

– le opere che la società intenderebbe realizzare non sarebbero di fedele rimessa in pristino degli immobili come sanati nel 1999 ma darebbero “origine ad una costruzione esternamente del tutto differente da quella preesistente (…)”, il che renderebbe quindi necessaria l’autorizzazione paesaggistica; la tolleranza costruttiva cosiddetta “di cantiere” del 2% sarebbe utilizzabile solo per un titolo abilitativo preventivo all’intervento e non in caso di sanatoria, attenendo non già alla fase di progettazione, bensì a quella di esecuzione di progetti assentiti, mentre in questo caso si sarebbe in presenza di un progetto (di ripristino) che anticipa uno scostamento, di talché il riferimento all’art. 34-bis t.u.e non sarebbe conferente; non sarebbe del pari pertinente la giurisprudenza richiamata dall’appellante, giacché relativa ad un caso diverso e comunque “smentita” dalle pronunce successive; inoltre la “atipica” rimessa in pristino delle opere necessiterebbe nella fattispecie di nulla osta paesaggistico, non rientrando nelle ipotesi esimenti di cui all’allegato A del regolamento n. 31/2017;

– non rileverebbe la mancata contestazione da parte del Comune dello scostamento oltre i limiti di legge, dal momento che l’applicabilità della relativa disposizione di legge sarebbe stata esclusa a monte in quanto la norma non sarebbe invocabile in sede progettuale; sarebbe in ogni caso dirimente la necessità dell’autorizzazione paesaggistica;

– con riferimento al superamento del termine di trenta giorni dal deposito della SCIA il T.a.r. avrebbe correttamente motivato nella sentenza gravata, rilevando, tra l’altro, come nel caso di specie sia comunque necessario il nulla osta paesaggistico.

  1. Alla camera di consiglio del 23 luglio 2024 l’appellante ha rinunciato all’istanza cautelare e la discussione del merito è stata fissata, previa rinuncia delle parti ai termini processuali, all’udienza pubblica del 15 ottobre 2024, nella quale la causa è stata ritualmente discussa e trattenuta in decisione.

DIRITTO

  1. L’appello è infondato.
  2. Sul primo motivo si condividono le conclusioni cui è pervenuto il giudice di prime cure in ordine, innanzi tutto, all’inapplicabilità nella fattispecie della tolleranza del 2% prevista dall’art. 34-bis del d.P.R. n. 380/2001, rubricato “Tolleranze costruttive”, che a parere del Collegio è applicabile alle difformità realizzate nel corso della realizzazione di un progetto approvato e non anche alle ipotesi, come nel caso all’esame, di scostamenti previsti in un progetto finalizzato alla rimessa in pristino dello stato dei luoghi in conseguenza di un provvedimento repressivo di abusi.

E del resto la sentenza n. 8709/2022 della Sezione VI di questo Consiglio di Stato, invocata dall’appellante a supporto della propria tesi, tratta, in realtà, il caso per così dire ordinario e fisiologico di applicazione della norma in questione, vale a dire un provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi relativamente ad opere eseguite abusivamente (in fase, quindi, realizzativa rispetto ad un progetto assentito) e concerne, quindi, con ogni evidenza, una fattispecie diversa da quella oggetto della presente controversia; considerazioni queste che valgono anche per le ulteriori sentenze n. 2837/2018 e n. 3371/2018, sempre della Sezione VI di questo Consiglio, richiamate nella pronuncia del 2022 innanzi citata.

Parimenti condivisibile appare quanto affermato dal T.a.r. con riferimento alla necessità, nel caso di specie, della preventiva autorizzazione paesaggistica – vale rilevare, per le opere non costituenti mera rimessa in pristino di quelle a suo tempo autorizzate in sanatoria –, stante la (pacifica, come rilevato dal primo giudice) sussistenza del vincolo.

Vale in proposito riportare quanto correttamente rilevato nella sentenza gravata, secondo cui “ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. 13 febbraio 2017 n. 311 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), non sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all’Allegato «A», tra i quali figurano le ‘A.30. demolizioni e rimessioni in pristino dello stato dei luoghi conseguenti a provvedimenti repressivi di abusi’ e le ‘A.31. opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell’area di sedime’. Orbene, è noto che la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto. Ne deriva che la s.c.i.a priva dell’autorizzazione paesaggistica è inefficace. Nel caso di beni soggetti a vincolo paesaggistico la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non produce effetti (…) La prospettazione attorea mescola e confonde abilmente i due casi che l’art. 2 del D.P.R. n. 31/2017 prevede distintamente ai punti A.30 (demolizioni e rimessioni in pristino dello stato dei luoghi conseguenti a provvedimenti repressivi di abusi) e A.31 (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell’area di sedime) dell’allegato A, esentandoli dall’autorizzazione paesaggistica. Pare al collegio che, come giustamente ritenuto dal Comune nei provvedimenti impugnati, il concetto di tolleranze costruttive di cui all’art. 34-bis del D.P.R. n. 380/2001 possa applicarsi soltanto nel caso del punto A.31 dell’allegato A al D.P.R. n. 31/2017, che implicitamente lo richiama, ovvero alle difformità realizzate in corso della messa in opera di un progetto approvato, non già rispetto ad interventi di rimessione in pristino dello stato dei luoghi conseguenti a provvedimenti repressivi di abusi (nel caso di specie, l’ordinanza n. 291 del 10.7.2020), specificamente esentati dal precedente punto A.30 con una disposizione che non contiene alcun riferimento alle tolleranze costruttive, e che, costituendo eccezione alla regola generale della necessità di autorizzazione paesaggistica, è di stretta interpretazione e non tollera applicazione analogica (art. 12 disp. prel. cod. civ.)”.

Il primo motivo è, dunque, infondato.

  1. Sulla seconda doglianza vale innanzi tutto rilevare che l’inciso contenuto nella sentenza gravata relativo alla mancata dimostrazione da parte della ricorrente del fatto che il progetto sotteso alla SCIA si discosti da quanto assentito in sanatoria per meno del 2% – profilo questo che effettivamente non costituisce oggetto di specifica contestazione di controparte – non è stato posto a fondamento della decisione ma costituisce piuttosto una sorta di obiter dictum, come tale del tutto inidoneo ad incidere sulle conclusioni già precedentemente raggiunte e chiaramente illustrate dal primo giudice con riferimento alla questione di diritto; conclusioni, vale rilevare, con ogni evidenza prescindenti dal cennato profilo, in quanto relative all’esclusione in radice – condivisibilmente, come già rilevato – dell’applicabilità dell’art. 34-bis t.u.e. alla presente fattispecie.

Venendo poi alla doglianza secondo cui il T.a.r. non si sarebbe espresso sulla contestata efficacia sine die della sospensione della SCIA disposta dal Comune, non v’è dubbio che, come del resto rilevato dalla stessa società, le cause di interruzione o sospensione del termine per provvedere alle istanze del privato finalizzate all’adozione di un provvedimento sono tipiche e di stretta interpretazione, come chiaramente affermato nelle pronunce giurisprudenziali a tal fine evocate dall’appellante (sul punto cfr. anche, fra le più recenti, Cons. Stato, Sez. Seconda, n. 6179/2024).

Sul punto vale tuttavia rilevare che nel caso di specie l’Amministrazione non appare, come dedotto dall’appellante, aver “sospeso sine die il procedimento per cercare di ottenere documenti pleonastici e comunque non dovuti (…)”, dal momento che la sospensione inibitoria disposta dal Comune era con ogni evidenza finalizzata all’acquisizione di documenti specificamente elencati e richiesti alla società proprio ai fini della definizione del procedimento, documenti – fra i quali, per l’appunto, l’inoltro di istanza di autorizzazione paesaggistica stante il vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, come innanzi rilevato nel caso di specie necessaria – che per quanto risulta, nonostante le ripetute richieste dell’ente locale, l’appellante non ha mai esibito.

E’ pur vero che l’art. 2, co. 7, l. n. 241/1990 prevede – riferendosi al procedimento amministrativo – che i termini “possono essere sospesi per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni”, ma ciò, oltre che riferirsi – come si è detto – alla tematica del procedimento amministrativo, cui la particolare fattispecie della SCIA è estranea – comporta che l’onere di “riattivazione” del procedimento si trasferisce sul privato sul quale incombe l’onere istruttorio commessogli. Con la conseguenza che questi non potrà imputare all’inerzia dell’amministrazione il superamento del termine di conclusione del procedimento laddove ciò dipenda dalla propria inerzia.

Allo stesso modo, in via analogica, può dirsi per il caso di specie, dove la sospensione avrebbe ben potuto essere interrotta con il comportamento attivo del privato.

In disparte ogni considerazione sulla natura intrinseca di detta reiterata sospensione, vale evidenziare che la circostanza non appare in ogni caso di per sé idonea a determinare, come l’appellante pretenderebbe, l’illegittimità dell’operato del Comune resistente, dal momento che l’ordinamento predispone, laddove ne ricorrano i presupposti, appositi ed idonei strumenti a disposizione del privato nel caso di ritardo dell’Amministrazione nella conclusione del procedimento, quali la richiesta di esercitare il potere sostitutivo ai sensi dell’art. 2, comma 9-ter, della legge n. 241/1990, il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del temine in questione ai sensi del successivo art. 2-bis, nonché i rimedi avverso il silenzio, fermo comunque restando quanto previsto dall’art. 2, comma 8, della legge medesima, secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.

Infine, è appena il caso di osservare – sul piano generale ed argomentando da quanto previsto dall’art. 21-quater l. n. 241/1990 in tema di efficacia del provvedimento amministrativo – che l’ordinamento comunque prevede un termine massimo della sospensione (ove questo non sia stato specificamente previsto dal provvedimento medesimo), laddove si afferma (comma 2 art. cit.) che “la sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’art. 21-nonies” della l. n. 241. Il che ben può essere interpretato come un principio generale in tema sia di necessaria previsione di un termine della sospensione, sia di limite massimo della medesima.

Anche la seconda censura non può, quindi, essere accolta.

  1. Alle medesime conclusioni si perviene con riferimento al terzo motivo, dal momento che, contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, il giudice di prime cure ha adeguatamente considerato la doglianza relativa al contestato superamento da parte del Comune del termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, rilevando – anche in questo caso condivisibilmente – come la sospensione dell’efficacia della SCIA, pur se intervenuta oltre il termine di trenta giorni, sia stata disposta dal Comune “soprattutto” in considerazione del fatto che “l’intervento proposto (…) non costituirebbe puntuale adempimento dell’ordinanza di rimessione in pristino n. 281/2020 e, pertanto, necessiterebbe dell’autorizzazione paesaggistica, essendo l’immobile sottoposto a vincolo (circostanza pacifica)”, considerato altresì che “la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto. Ne deriva che la s.c.i.a priva dell’autorizzazione paesaggistica è inefficace. Nel caso di beni soggetti a vincolo paesaggistico la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non produce effetti”.

Va infatti considerato che la SCIA – qualificabile quale istituto di “liberalizzazione amministrativa” in quanto prescinde di norma da un vero e proprio provvedimento amministrativo emanato dall’Amministrazione – presuppone comunque l’integrazione dei requisiti e dei presupposti di legge, residuando in capo all’Amministrazione il potere/dovere di una verifica ex post della loro sussistenza.

  1. Sul quarto motivo, con il quale la società ripropone le censure dedotte in primo grado in quanto ritenute (parzialmente) assorbite dal T.a.r., basterà per brevità richiamare quanto sin qui osservato, trattandosi a ben vedere di questioni già oggetto delle precedenti considerazioni, con l’unica eccezione, vale rilevare per estrema completezza, della doglianza (terzo motivo dedotto in primo grado) relativa alla asserita mancata considerazione da parte del Comune della memoria partecipativa della ricorrente nella parte in cui veniva rilevato il superamento del più volte richiamato termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA per l’adozione di eventuali provvedimenti.

Sul punto non può non osservarsi come la dialettica Amministrazione-privato presupponga in ogni caso un preciso dovere in capo all’Amministrazione medesima di valutare in ogni caso le osservazioni formulate dall’interessato nel corso del procedimento e di esplicitare in maniera intellegibile il proprio iter logico-giuridico; tuttavia, solo in caso di osservazioni conseguenti al preavviso di rigetto emesso (e, quindi, ad istruttoria conclusa) ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 le disposizioni impongono al responsabile del procedimento o all’autorità competente di esplicitare nel provvedimento finale di diniego la motivazione dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni della parte interessata.

Peraltro, se per un verso non può considerarsi a tal fine legittimo il ricorso a mere formule di stile (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 2989/2021 e Sez. I, n. 224/2022), giova ricordare, sul piano generale, che “secondo la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, il dovere della pubblica amministrazione di esaminare le memorie prodotte dall’interessato a seguito della comunicazione del preavviso di rigetto da essa inviata non comporta la confutazione analitica delle allegazioni presentate dall’interessato, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la sintesi degli elementi di fatto e diritto posti a sostegno dell’atto stesso. Va pure precisato che la doverosa valutazione degli apporti infraprocedimentali risente inevitabilmente della natura degli stessi, nel senso che l’onere valutativo è maggiormente penetrante con riferimento alla prospettazione da parte del privato di elementi fattuali, mentre è molto attenuato allorché le deduzioni del privato contengano valutazioni giuridiche, laddove è sufficiente che l’Amministrazione ribadisca il proprio intendimento” (così Cons. Stato, Sez. VI, n. 40/2021; cfr. anche, ex multis, Sez. I, n. 407/2021).

  1. Alla luce di tali complessive considerazioni l’appello deve essere respinto.
  2. Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2024 con l’intervento dei magistrati:

Oberdan Forlenza, Presidente

Francesco Guarracino, Consigliere

Giancarlo Carmelo Pezzuto, Consigliere, Estensore

Alessandro Enrico Basilico, Consigliere

Valerio Valenti, Consigliere

 

 

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Giancarlo Carmelo Pezzuto

Oberdan Forlenza

 

 

 

 

 

IL SEGRETARIO