Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8722/2024, si è pronunciato in merito alla questione della prescrizione del credito relativo alla sanzione pecuniaria per abuso edilizio in zona vincolata, originato da un intervento edilizio oggetto di condono. La controversia ha avuto origine dall’intervento di un soggetto che aveva realizzato lavori edilizi senza la necessaria autorizzazione paesaggistica, ma aveva successivamente chiesto il condono ai sensi delle normative in materia di sanatoria edilizia. La domanda di condono era stata presentata nel 1986, mentre la valutazione della compatibilità paesaggistica era stata compiuta solo nel 2002. La controversia si è concretizzata quando, nel 2019, l’amministrazione ha quantificato la sanzione pecuniaria dovuta come alternativa alla demolizione dell’opera, fissando l’importo da pagare per la regolarizzazione dell’abuso edilizio.

Il ricorrente, contestando l’operato dell’amministrazione, ha sollevato la questione della prescrizione del credito, invocando il termine decennale previsto per il pagamento delle sanzioni pecuniarie. Il punto centrale della controversia riguardava la decorrenza della prescrizione del credito: il privato sosteneva che il termine di prescrizione per il pagamento della sanzione fosse iniziato a decorrere dal momento in cui era stata presentata la domanda di condono, ovvero nel 1986, senza che fosse necessario attendere la quantificazione della somma da pagare. Di conseguenza, il ricorrente riteneva che il credito dell’amministrazione fosse ormai prescritto, giacché, a suo avviso, il termine per la prescrizione era già scaduto al momento della determinazione dell’importo della sanzione.

Il Consiglio di Stato, al contrario, ha escluso la validità di tale interpretazione, affermando che la prescrizione del credito relativo alle sanzioni amministrative pecuniarie non decorre dalla presentazione della domanda di condono, ma dalla determinazione dell’importo della sanzione. Il Tribunale ha precisato che la decorrenza del termine di prescrizione per il pagamento della sanzione pecuniaria si realizza solo a partire dalla quantificazione della somma dovuta, ossia dal momento in cui l’amministrazione fissa concretamente l’importo da pagare come alternativa alla demolizione dell’opera. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, la prescrizione per il pagamento di una sanzione pecuniaria non può decorrere dalla mera presentazione della domanda di condono, ma deve necessariamente coincidere con il momento in cui la sanzione stessa viene concretamente determinata dall’amministrazione.

Il Consiglio di Stato ha quindi ribadito un principio di diritto fondamentale per la gestione dei crediti derivanti da sanzioni amministrative in ambito edilizio e paesaggistico, chiarendo che la prescrizione dei crediti relativi alle sanzioni pecuniarie non può iniziare prima della quantificazione dell’importo dovuto, e che il termine di prescrizione decorre dalla determinazione della somma da pagare, non dalla presentazione della domanda di condono. Tale posizione del Tribunale risulta in linea con i principi generali di diritto amministrativo, secondo cui la sanzione non è pienamente esigibile fino a quando non è concretamente determinato l’ammontare della somma dovuta.

Con questa decisione, il Consiglio di Stato ha fornito un importante chiarimento in materia di decorrenza dei termini di prescrizione per le sanzioni amministrative, specificando che, nel caso delle sanzioni pecuniarie derivanti da abuso edilizio, il termine di prescrizione non può iniziare a decorrere prima della quantificazione dell’importo della sanzione. Tale principio si estende alla regolazione del condono edilizio, e chiarisce che solo con la determinazione dell’importo della sanzione il credito diventa esigibile, con la conseguente possibilità di far partire la prescrizione.

La sentenza n. 8722/2024 si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale che ha riguardato l’applicazione della normativa sul condono edilizio e la gestione delle sanzioni pecuniarie in relazione agli abusi edilizi in zone vincolate, ribadendo il principio che il termine di prescrizione decorre solo dal momento in cui la somma da pagare viene effettivamente determinata, non dalla mera presentazione della domanda di condono. Questo orientamento offre una guida precisa per le future controversie in materia edilizia e paesaggistica, sia per gli operatori del settore che per gli enti pubblici chiamati a gestire e applicare le normative in materia di sanzioni amministrative.

Pubblicato il 04/11/2024

  1. 08722/2024REG.PROV.COLL.
  2. 00904/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 904 del 2021, proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Sonia Sau e Mattia Pani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

la signora – OMISSIS -, rappresentata e difesa dagli avvocati Alessandro Avagliano e Marcello Antonio Costaggiu, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, Sezione Seconda, 27 agosto 2020, n. 463, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora – OMISSIS -;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;

Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 2 ottobre 2024 il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Sonia Sau e l’avvocato Alessandro Avagliano;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

  1. Con la sentenza appellata è stato accolto il ricorso proposto dalla signora – OMISSIS – per l’annullamento della determinazione n. 129 dell’11 febbraio 2019, prot. n. 5361/1/Det. –I.4.3., contenente in allegato il calcolo della sanzione pari ad euro 15.151,80 per le opere realizzate nel Comune di Posada (NU) in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, in applicazione dell’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, ora art. 167 del d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004.

1.1. In punto di fatto va precisato che la signora – OMISSIS – era subentrata nella pratica di condono avviata in data 27 settembre 1986 dal coniuge, successivamente deceduto, e lo aveva ottenuto in data 11 gennaio 2002 sul presupposto dell’avvenuto rilascio da parte della Regione del nulla osta paesaggistico, risalente al 3 giugno 1999, recante l’esplicito riconoscimento che le opere realizzate non arrecavano danno ai beni tutelati «[…] in quanto si inseriscono coerentemente nel contesto urbano interessato, perché non contrastano con la tipologia edilizia dell’intorno». Quanto all’indennità prevista dalla legge n. 1497/1939, ne differiva la determinazione ad un successivo provvedimento, che avrebbe dovuto specificare anche le modalità di pagamento, sulla base della perizia contestualmente affidata all’Ufficio del Genio civile.

1.2. La controversia afferisce dunque alla richiesta di corresponsione di tale indennità, sopravvenuta dopo circa venti anni con il provvedimento impugnato, notificato alla parte il 18 febbraio 2019, che ne ha quantificato d’ufficio l’importo stante che l’interessata, debitamente compulsata in merito una prima volta nel 2008 e la successiva nel 2014, non aveva provveduto a redigere una propria valutazione peritale.

  1. Il primo giudice ha ritenuto il credito della Regione prescritto, dovendo trovare applicazione nel caso di specie «pacificamente» il termine individuato dall’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che per il diritto a riscuotere le somme dovute per violazioni amministrative lo fissa in cinque anni dalla loro commissione. Il dies a quo, infatti, individuato nella data di cessazione della qualificazione come contra ius della costruzione, andava ravvisato nella concessione in sanatoria, risalente, come detto, all’ 11 gennaio 2002, sicché la pretesa pecuniaria sarebbe ampiamente fuori termine (v. C.G.A.R.S. 17 giugno 2019, n. 533, dalla cui motivazione il T.a.r. per la Sardegna trae ampi stralci).
  2. La Regione Sardegna contesta tale ricostruzione con due articolati motivi di gravame.

3.1. Con il primo motivo (rubricato sub I), argomenta sul fatto che venendo all’evidenza un’attività abusiva che dà luogo ad un illecito permanente, a cui deve conseguire una misura ripristinatoria dello stato dei luoghi, seppure la stessa assuma la veste formale di sanzione amministrativa non può trovare applicazione l’art. 28 della legge n. 689/1981. La richiesta corresponsione di somme in luogo della demolizione, infatti, non assolve (solo) ad una funzione sanzionatoria/punitiva ma si atteggia, più propriamente, come misura reale, costituendo un’obbligazione propter rem imposta per ragioni di tutela del territorio. Tali principi sono stati da sempre affermati dalla giurisprudenza amministrativa, che ha ricordato come la repressione degli abusi edilizi possa essere disposta in qualsiasi momento, sia in ragione di tale carattere reale delle relative “sanzioni”, sia perché l’illecito ad esse sotteso ha, come detto, natura permanente, sicché va “fronteggiato” con misure oggettive, in rapporto alle quali non può nemmeno essere utilmente invocato il principio di estraneità dei proprietari alla effettuazione. In sintesi, gli ordini di demolizione e in egual misura le alternative sanzioni pecuniarie di cui (ora) all’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 – in passato all’art. 15 della l. n. 1497/1939 – non presuppongono neppure l’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito, in quanto non sono destinate a punire un comportamento illegittimo del trasgressore, ma sono (entrambi) atti di tipo ripristinatorio e restitutorio con la funzione di eliminare le conseguenze della violazione paesaggistica. Da qui la sostanziale imprescrittibilità del potere di irrogarle, destinato a perdurare fintanto che non sia operata la rimessione in pristino stato o il pagamento della specifica indennità risarcitoria. Proprio con riferimento al procedimento e all’indennità ex art. 15 della legge n. 1497/1939, la giurisprudenza ha infatti ricordato in più occasioni che un potere di natura autoritativa, quale quello di vigilanza e controllo in materia di paesaggio, non può estinguersi per prescrizione o decadenza in quanto «l’ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione l’esercizio di poteri di controllo e di sanzione da parte delle amministrazioni competenti in materia urbanistico-edilizia e paesistica: dimodoché l’accertamento dell’illecito amministrativo urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché l’applicazione delle relative sanzioni, come pure la verifica in sede di condono della sussistenza di eventuali profili preclusivi di incompatibilità, possono intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell’abuso, al quale – si ribadisce – deve riconoscersi natura permanente, con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale esecuzione della sanzione» (Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2007, n. 1255; sez. V, 8 aprile 2014, n. 1650).

3.2. La possibilità di prescrizione del credito, dunque, non può che riferirsi alla fase della riscossione delle somme oggetto di ingiunzione (motivo sub II, afferente il dies a quo di decorrenza della prescrizione), certo non al potere dell’amministrazione di ingiungerle. Pertanto, in applicazione dei principi generali di cui agli artt. 2934 e 2935 c.c. secondo i quali la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, il dies a quo non può mai identificarsi con la data di rilascio del titolo edilizio comunale di sanatoria dell’abuso, ma deve coincidere con quella di adozione della sanzione pecuniaria (v. Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2017, n. 5420).

  1. La signora – OMISSIS – si è costituita in giudizio per resistere all’appello. Con memoria in controdeduzione ha evidenziato come, diversamente da quanto sostenuto dalla Regione appellante, secondo un costante orientamento giurisprudenziale l’indennità pecuniaria prevista per gli abusi edilizi realizzati in zone soggette a vincolo paesaggistico dalla disposizione di cui all’art. 15 della legge n. 1497/1939 (divenuto poi art. 164 del d.lgs. n. 490/1999 e solo successivamente art. 167 del d.lgs. n. 42/2004) deve essere annoverata nell’alveo delle “sanzioni amministrative” e non invece in quello del risarcimento del danno, cui la relativa denominazione aveva fatto in origine pensare (in questo senso, tra le tante, v. Consiglio di Stato, sez. VI, 26 maggio 2023, n. 5211; id.,8 gennaio 2020, n. 130; 2 giugno 2000, n. 3184; 9 ottobre 2000, n. 5386; sez. V, 26 settembre 2013, n. 4783; sez. IV, 2 marzo 2011, n. 1359; id., 12 marzo 2009, n. 1464; sez. II, 25 luglio 2020, n. 4755; id., 2 ottobre 2019, n. 6605; C.G.A.R.S. 25 marzo 2019, n. 251; 20 marzo 2020, n. 198; 3 luglio 2020, n. 527). Da qui l’applicabilità dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981, come sancito nella sentenza impugnata.

4.1. La Regione Sardegna ha a sua volta prodotto memoria e memoria di replica per ribadire la propria prospettazione.

  1. All’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del 2 ottobre 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

  1. L’appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
  2. La questione posta all’esame del Collegio afferisce all’esatta natura della misura pecuniaria prevista in passato dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, attualmente dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, per i casi di c.d. sanatoria paesaggistica.

7.1. Come meglio chiarito di seguito, tuttavia, le due fattispecie non sono totalmente sovrapponibili, sicché non è possibile estendere all’una le considerazioni sistematiche e strutturali che si attagliano all’altra. Quanto detto al fine di chiarire da subito che il Collegio ben conosce e non intende contraddire le conclusioni cui da tempo è pervenuta la giurisprudenza con riferimento all’istituto di cui all’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004; ritiene tuttavia che un approfondito scrutinio dello stesso nella sua attuale configurazione imponga anche l’evidenziazione dei profondi tratti differenziali rispetto al suo omologo del 1939.

  1. Ciò detto, va ora ricordato che il comma 1 del citato art. 15 della legge n. 1497 del 1939, così disponeva: «Indipendentemente dalle sanzioni comminate dal codice penale, chi non ottempera agli obblighi e agli ordini di cui alla presente legge è tenuto, secondo che il Ministero dell’educazione nazionale ritenga più opportuno, nell’interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche, alla demolizione a proprie spese delle opere abusivamente eseguite o al pagamento di una indennità equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione». La natura del provvedimento de quo, ove si concretizzi nell’intimazione di pagamento, dopo un’originaria oscillazione giurisprudenziale, è stata pressoché definitivamente ricondotta all’alveo sanzionatorio. Si è infatti al riguardo osservato che con la norma in esame il legislatore ha inteso perseguire una duplice vocazione, individuando uno “strumento bifronte”, che solo in certi casi persegue una finalità ripristinatoria, ferma restando quella punitiva (Cons. St., sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 130; V, 20 dicembre 2013, n. 6113; id., 13 luglio 2006, n. 4420; 22 settembre 2006, n. 5574). La condanna al pagamento di una somma di denaro, infatti, impropriamente denominata “indennità”, per un importo «equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito», in quanto alternativa alla demolizione, consegue ad una scelta dell’amministrazione competente (come evidenziato dall’uso della disgiuntiva “o” nella formulazione letterale della norma). Diversamente da quanto accade dunque in caso di c.d. “fiscalizzazione” dell’abuso edilizio, nel quale la monetizzazione dell’illecito consegue alla riscontrata impossibilità “tecnica” di demolire l’intervento, in assoluto (art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero senza pregiudizio per la parte “lecita” dello stesso (art. 34 del medesimo T.u.e.), nel caso di specie l’opzione contenutistica per la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione si pone a monte del procedimento sanzionatorio, caratterizzato dall’integra volontà punitiva, tale tuttavia da non ritenere necessaria la rimozione dell’opera, per lo più per riscontrata assenza di un danno ambientale.
  2. L’irrogazione di tale sanzione è scaturita il più delle volte dalla “autodenuncia” dell’illecito da parte del privato che ne ha richiesto la legittimazione postuma e in tale ottica interseca la tematica della ammissibilità o meno della sanatoria paesaggistica. Sul piano degli effetti il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, che in linea di massima conseguiva alla ricordata carenza di danno ambientale, «pur inibendo il ricorso alla misura ripristinatoria, non può considerarsi un equipollente perfetto dell’autorizzazione tempestiva, lasciando fermo, in capo alla competente Amministrazione, il potere-dovere di procedere all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 15, legge n. 1497 del 1939» (cfr. ancora Cons. Stato, n. 6113/2013); ma facendo venire meno la natura illecita della costruzione incide sull’individuazione del dies a quo per il computo della prescrizione.
  3. Va a questo punto ricordato che sanatoria edilizia e sanatoria paesaggistica non si identificano, stante che la seconda è integrata nella prima sub specie di avallo postumo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo nei soli casi di condono, non consentito se non a condizioni date per l’accertamento di conformità.
  4. Nel vigore della legge n. 1497 del 1939, pur in assenza di esplicita disciplina in tal senso, la sanabilità postuma degli illeciti paesaggistici veniva desunta proprio dalla formulazione dell’art. 15: ammettendosi, infatti, finanche il mantenimento in loco dell’opera, a prescindere, quanto meno in astratto, dal suo impatto sul contesto, è evidente che implicitamente se ne consentiva anche ridetta legittimazione. Con riferimento al condono edilizio, o sanatoria straordinaria, ha poi provveduto l’art. 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, cui fa rinvio anche la successiva normativa condonistica, in forza del quale «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso». La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente affermato, quanto all’oggetto della valutazione paesaggistica nel contesto del procedimento di condono edilizio, che il richiamato parere «ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistica edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, con estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario» (Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6123). Il successivo art. 33, statuisce che non sono suscettibili di sanatoria – tra l’altro – le opere realizzate in contrasto con i «vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali» e con «ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree», precisando che in ogni caso deve trattarsi di vincoli «imposti prima della esecuzione delle opere stesse». Di fatto, quindi, il procedimento di condono di un abuso su area vincolata è assimilabile a quello previsto a regime per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica “ordinaria”, nonché per l’accertamento di conformità, nei residui casi in cui esso è possibile.
  5. Pure sotto il vigore dell’art. 151 del d.lgs. n. 490 del 29 ottobre 1999 (che ha riprodotto l’art. 7 della legge n. 1947/39), era opinione diffusa nella giurisprudenza amministrativa che l’autorizzazione paesaggistica potesse essere rilasciata in sanatoria purché in presenza del (solo) presupposto della compatibilità attuale dell’intervento abusivo con il paesaggio, in termini di mancata produzione di effetti pregiudizievoli in relazione allo stato dei luoghi antecedente all’edificazione. Addirittura si reputava che per un immobile in area sottoposta a vincolo paesaggistico, anche la sanatoria ordinaria poteva essere conseguita sotto il profilo edilizio-urbanistico se sussisteva la “doppia conformità” a norma del richiamato art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché, in precedenza, dell’art. 13 della legge n.47/85. Sotto il profilo paesaggistico, era ritenuta sufficiente la valutazione positiva dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione circa la mancanza di danno al paesaggio, applicando la sanzione pecuniaria di cui all’art. 164 del medesimo decreto legislativo e ferma restando la possibilità di annullamento da parte del Ministero nei successivi 60 giorni.
  6. L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 ha segnato una decisa svolta in senso restrittivo, stante che nella sua stesura originaria prevedeva (comma 10, lettera c) quale regola generale il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma, affermando che tale titolo non può essere rilasciato «in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi». Con il d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157/2006 (c.d. primo correttivo al Codice dei beni culturali e del paesaggio) la materia è stata profondamente innovata, stemperando la tassatività di tale divieto assoluto, peraltro già messo in discussione da parte della dottrina, quanto meno con riferimento alle opere realizzate nel periodo transitorio ex art. 159. La novellata formulazione del comma 12 dell’art. 146 ha ribadito il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ma solo «fuori dai casi di cui all’ articolo 167, commi 4 e 5», così ammettendolo nelle ipotesi di minore consistenza espressamente declinate in tale disposizione. Il successivo d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63, ha confermato tale disposizione – tuttora vigente – anche se l’ha spostata al comma 4. Il comma 5 dell’art. 167, replicando, ma solo nelle sue linee essenziali, la formulazione dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, prevede dunque che in caso di accertata compatibilità paesaggistica, «[…] il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».

11.1. Siffatta cornice normativa è strettamente connessa con la particolare rilevanza costituzionale attribuita ai beni ambientali, in quanto la garanzia degli stessi non è solo fine a sé stessa, ma anche strumentale alla preservazione di beni fondamentali come la salute e la vita. La scelta del legislatore di consentire l’autorizzazione paesaggistica postuma esclusivamente per i c.d. “abusi minori” è in linea con i principi costituzionali della ragionevolezza e della parità di trattamento, oltre che con quelli dell’ordinamento comunitario, perché si muove su un piano di coerenza con l’accentuato profilo costituzionale dell’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio. Impostazione che non è stata evidentemente incisa dalle recenti novelle costituzionali, in particolare riferite all’art. 9 della Costituzione.

  1. La (re)introdotta possibilità di sanatoria paesaggistica degli abusi minori ingloba in sé la possibilità –recte, l’obbligo – di irrogare una sanzione pecuniaria che solo in relazione ai criteri di individuazione mutua la formulazione del “vecchio” art. 15 della legge n. 1497/1939. Nell’impostazione del legislatore del 2006, cioè, è la natura minimale dell’abuso, per come configurata a monte e tassativamente dal legislatore, a consentirne la sanatoria, in quanto valutato per tipologia e consistenza ex se inidoneo a produrre un danno ambientale. In tale logica la somma di denaro tiene luogo della demolizione che resta il rimedio generale, a valere sempre e comunque, ove non sia stata richiesta una legittimazione postuma. Come si vede, si tratta di un’impostazione totalmente diversa da quella seguita dal legislatore del 1939, che, come detto, facoltizzava l’Amministrazione a far demolire o monetizzare, senza indicare la casistica di riferimento, ma rimettendone la valutazione all’organo titolare del potere sanzionatorio, e comunque al di fuori del procedimento di sanatoria, pur costituendo quest’ultimo l’avvio tipico dell’accertamento dell’illecito.
  2. La separazione tra sanatoria paesaggistica e sanzione nel sistema della legge del 1939 è confermata dal fatto che sul piano degli effetti, il rilascio della prima, che in linea di massima conseguiva alla ricordata carenza di danno ambientale, «pur inibendo il ricorso alla misura ripristinatoria, non può considerarsi un equipollente perfetto dell’autorizzazione tempestiva, lasciando fermo, in capo alla competente Amministrazione, il potere-dovere di procedere all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 15, legge n. 1497 del 1939» (cfr. ancora Cons. Stato, n. 6113/2013). Essendo quest’ultimo un provvedimento di natura repressiva, cioè, doveva essere comunque adottato in ragione della conclamata violazione dell’obbligo da parte del suo destinatario indipendentemente dalla presenza di un danno ambientale, per il solo fatto che fosse stata accertata la realizzazione dell’intervento violando determinate regole, tra le quali, segnatamente, quella della necessità del titolo di legittimazione preventiva. L’“indennità” prevista dall’art. 15 della l. 29 giugno 1939, n. 1497, dunque, quale alternativa alla demolizione per il caso di violazione degli obblighi e ordini previsti a tutela delle bellezze naturali, in quanto sanzione amministrativa pecuniaria, e non forma di risarcimento del danno, è dovuta, come detto, anche se la violazione delle norme non ha in concreto prodotto alcun danno paesaggistico-ambientale. Nella previsione normativa, infatti, tale danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro per l’an della misura medesima (Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2083; id., 2 giugno 2000, n. 3184; 16 aprile 2010, n. 2160; sez. VI, 18 aprile 2007, n. 1766; C.G.A.R.S., 20 marzo 2009, n. 135; A.G., 11 aprile 2002, n. 4/02).

13.1. Nel sistema del d.lgs. n. 42 del 2004, invece, la concessione della sanatoria implica l’irrogazione della sanzione, che dunque tiene luogo della demolizione e per tale ragione si ritiene ne mutui tutte le caratteristiche reali, ivi inclusa la sostanziale imprescrittibilità. Tale sanzione, cioè, pur se di carattere pecuniario, partecipa della medesima natura di ricomposizione dell’ordine urbanistico della legalità violata e di soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio che connota quella ripristinatoria (Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2023, n° 6381). Il potere di irrogarla è posto a presidio dell’interesse pubblico di rango costituzionale alla preservazione del paesaggio ed è esercitabile finché perdura l’illecito, che ha natura permanente e cessa soltanto con la rimessione in pristino o con il pagamento della sanzione irrogata.

  1. Una volta chiarita la diversa natura dei due rimedi, seppure contenutisticamente identici, in ragione del mutato contesto sistematico nel quale si inseriscono, è evidente che per il provvedimento sanzionatorio ex art. 15, l. n. 1497/1939, peraltro anche nei casi in cui non venga all’evidenza alcuna lesione dell’interesse paesaggistico, come quello in controversia, non può essere adottato sine die e ad libitum dell’amministrazione, ma è assoggettato ai normali termini prescrizionali previsti al riguardo. Per quanto, infatti, non sia ancora sopito il dibattito circa la portata generale di tutti i principi espressi dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, alla generalità degli illeciti amministrativi, non è revocabile in dubbio che ad essi si applichi il termine di prescrizione di cui all’art. 28 (Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3548).
  2. Per mera completezza il Collegio evidenzia come la nitidezza della evidenziata distinzione è destinata a generare nuove aree chiaroscurali se si ha riguardo alla nuova disciplina della sanatoria ordinaria introdotta con l’introduzione nel d.P.R. n. 380 del 2001 dell’art. 36-bis, ad opera del d.l. 29 maggio 2024, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2024, n. 105 (c.d. “salva casa”): il comma 5-bis, infatti, consentendo l’accertamento di conformità anche per interventi eseguiti in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica sulla base del previo parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, peraltro anche in caso di lavori che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero l’aumento di quelli legittimamente realizzati, sembrerebbe avere di fatto ampliato le previsioni di cui all’art. 167, ma delegando (nuovamente) al parere la valutazione di compatibilità paesaggistica, e dunque un giudizio di merito che, ove negativo, implicherà la demolizione, in luogo della sanzione pecuniaria.
  3. Va infine ricordato come in linea di principio, il rilascio dei titoli (quello edilizio e anche quello paesaggistico, nel caso di presenza del relativo vincolo) fa cessare la permanenza dei relativi illeciti (Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2011, n. 1359). Infatti, per il principio di legalità, le opere edilizie si possono considerare supportate da un titolo solo se quello richiesto dalla legge è rilasciato prima della loro realizzazione o successivamente (nei casi consentiti di condono o di accertamento di conformità), così come – sotto il profilo paesaggistico – le opere si possono considerare supportate da un titolo solo se la relativa autorizzazione è rilasciata e diventa efficace prima della loro realizzazione o successivamente (nei casi consentiti di condono o di accertamento di conformità).
  4. Rileva il Collegio come occorra a questo punto collocare il procedimento di sanatoria edilizia attivato su istanza dei medesimi appellati nella cornice sopra delineata.
  5. Il signor Bernardino Burrai, marito e dante causa dell’odierna appellata, deceduto nel 1992, aveva presentato in data 27 settembre 1986 domanda di condono edilizio. Su richiesta del Comune di Posada, competente per territorio, la Regione Sardegna aveva rilasciato il previsto nulla osta ritenendo le opere prive di impatto negativo sul paesaggio in data 3 giugno 1999, con riserva di indicare l’entità dell’indennizzo dovuto, in misura pari all’utile conseguito (giusta la riscontrata assenza di danno) sulla base di apposita perizia richiesta al Genio civile.

18.1. Il Comune di Posada ha rilasciato il condono, sulla base di tale parere favorevole, in data 11 gennaio 2002, così facendo venir meno la natura illecita della costruzione, tanto sotto il profilo edilizio che paesaggistico. Ciò ha portato alla regolarizzazione del manufatto, con conseguente cessazione dell’illecito permanente costituito dalla sua avvenuta realizzazione sine titulo.

La richiesta di corresponsione della sanzione prevista dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 è stata avanzata solo nel 2019, ovvero circa 17 anni dopo l’avvenuta legittimazione dell’abuso. E’ ovvio che ciò non comporta l’applicabilità dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, stante che, come chiarito dall’art. 159 del medesimo, recante la disciplina transitoria, lo consente con riferimento ai procedimenti in corso, non a quelli ormai perfezionati con l’atto conclusivo (la sanatoria anche paesaggistica del 2002). All’atto della richiesta, dunque, la sanzione era ineludibilmente prescritta.

Né infine il termine di prescrizione può ritenersi interrotto dalla richiesta avanzata dalla Regione alla signora – OMISSIS -, sulla asserita base delle regole procedimentali statuite a livello regionale, di provvedere autonomamente a periziare il bene per individuarne l’aumento di valore (in ragione dell’abuso che non ha arrecato danno all’ambiente). E ciò sia in quanto spettava all’Ente territoriale attivarsi per il recupero del credito, in primo luogo quantificandolo, ovvero utilizzando tutto lo strumentario giuridico messo a disposizione dal codice civile per la salvaguardia delle proprie ragioni patrimoniale; sia in ragione del fatto che la prima di tali richieste di attivazione è, per espressa dichiarazione di parte appellante, risalente al 2008, ovvero comunque successiva allo spirare del termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 28 della legge n. 689 del 1981.

  1. Il rigetto del primo motivo di appello rende superfluo scrutinare il secondo, non essendo in contestazione la tempistica di recupero della somma una volta richiesta, ma la tempestiva formulazione della stessa, irrogando la relativa sanzione.
  2. Da quanto detto, consegue la correttezza della sentenza appellata.
  3. La complessità della vicenda trattata giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso nella camera di consiglio del giorno 2 ottobre 2024, tenutasi in modalità da remoto in videoconferenza con la contemporanea e contestuale presenza dei magistrati:

Oreste Mario Caputo, Presidente FF

Giovanni Sabbato, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore

Carmelina Addesso, Consigliere

Roberta Ravasio, Consigliere

 

 

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Antonella Manzione

Oreste Mario Caputo

 

 

 

 

 

IL SEGRETARIO