Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con la sentenza n. 20177 del 13 novembre 2024, ha affrontato una questione relativa al riconoscimento di qualifiche professionali ottenute in Romania ai fini dell’esercizio di una professione regolamentata in Italia, nell’ambito del diritto europeo alla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. In particolare, il Tribunale ha esaminato il caso di un rigetto da parte delle autorità italiane di una domanda di riconoscimento di un titolo di formazione professionale per la mancanza di due documenti: l’“apostille” e l’“Adeverinta”.

Per quanto riguarda l’“apostille”, il Tribunale ha affermato che la sua richiesta da parte dell’amministrazione italiana è illegittima, in quanto la Direttiva 2005/36/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, che regola il riconoscimento delle qualifiche professionali tra Stati membri, non prevede tale adempimento. In base alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, l’“apostille” è un timbro che certifica l’autenticità della firma e del sigillo di un documento pubblico, ma la sua mancanza non può essere ostacolo al riconoscimento del titolo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha già chiarito che la richiesta di un’“apostille” rappresenta una barriera ingiustificata alla libera circolazione nel mercato interno europeo, in violazione del principio di proporzionalità. Pertanto, il Tribunale ha ritenuto che la richiesta di “apostille” non fosse conforme alle disposizioni europee.

Riguardo all’“Adeverinta”, che è il certificato ministeriale che attesta l’abilitazione all’insegnamento in una specifica materia, il Tribunale ha escluso che la sua mancanza possa giustificare il rigetto della domanda. Il Tribunale ha precisato che la comparazione tra le qualifiche estere e quelle italiane deve essere effettuata concretamente, senza limitarsi alla documentazione formale, e che in assenza dell’“Adeverinta” possono essere presentati altri atti equivalenti, come i certificati di formazione esteri, o misure compensative per colmare eventuali lacune. In particolare, il Tribunale ha sottolineato che la prassi di richiedere un documento che certifica l’abilitazione (l’“Adeverinta”) non è prevista come obbligatoria per il riconoscimento del titolo, e che la valutazione deve essere basata su un esame complessivo della formazione acquisita dal richiedente.

Il Tribunale ha, inoltre, fatto riferimento all’articolo 51 della Direttiva 2005/36/CE, che impone agli Stati membri di informare il richiedente di eventuali carenze nella documentazione entro un mese dal ricevimento della domanda. In base a questa norma, è possibile richiedere integrazioni documentali, ma tale richiesta non deve comportare la chiusura del procedimento o il rigetto automatico della domanda. I termini per la presentazione della documentazione integrativa, inoltre, sono stati considerati di natura ordinatoria, non perentoria, il che implica che l’inadempimento del richiedente non possa condurre automaticamente al rigetto dell’istanza, ma che l’amministrazione debba comunque esaminare il titolo presentato e decidere se accettarlo, eventualmente con misure compensative per colmare le differenze.

Infine, il Tribunale ha ribadito il principio di favore per la libera circolazione e la necessità di applicare il diritto dell’Unione Europea in modo che non siano create ingiustificate difficoltà burocratiche o formalità che ostacolino l’esercizio delle professioni da parte dei cittadini europei, in violazione dei principi fondamentali del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

Pubblicato il 13/11/2024

  1. 20177/2024 REG.PROV.COLL.
  2. 04170/2024 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4170 del 2024, proposto da – OMISSIS -, rappresentata e difesa dall’avvocato Rita Parentela, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dell’Istruzione e del Merito, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’annullamento

– del provvedimento di rigetto domanda riconoscimento titolo di abilitazione all’insegnamento conseguito all’estero in Romania di cui al decreto direttoriale del Ministero dell’Istruzione e del Merito, prot. AOODGOSV n. – OMISSIS – del 12.03.2024;

– di ogni altro atto e/o verbale e/o provvedimento ad essi connesso e/o conseguenziale e/o prodromico, anche non noto, concernente la procedura amministrativa de qua;

nonché

per la condanna in forma specifica dell’Amministrazione resistente all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio in forma specifica, finalizzate al riconoscimento del titolo abilitativo, anche in via di urgenza e con riserva, e per la condanna al risarcimento del danno da perdita di chances.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione e del Merito;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 ottobre 2024 il dott. Giovanni Caputi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

  1. – Con l’atto introduttivo del presente giudizio la ricorrente impugna il provvedimento, meglio specificato in epigrafe, con il quale è stata rigettata la sua istanza di riconoscimento del titolo conseguito in Romania, chiedendone l’annullamento previa sospensione cautelare degli effetti.

La ricorrente domanda inoltre il risarcimento dei danni in forma specifica e/o per equivalente.

  1. – Il menzionato respingimento operato da parte del Ministero è basato sulla riscontrata assenza nella documentazione allegata dalla ricorrente: (i) del certificato finale di competenza del Ministero Rumeno (la “Adeverinta”) recante l’attestazione della disciplina che la ricorrente può insegnare in Romania e della relativa fascia di età degli alunni; (ii) della “apostille” ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 o di altra forma di legalizzazione dei documenti presentati; (iii) della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nella quale indicare i singoli atti e documenti inseriti in piattaforma dichiarando che le copie trasmesse sono conformi agli originali.

I predetti documenti e adempimenti erano stati richiesti dall’Amministrazione alla ricorrente in sede istruttoria.

  1. – I motivi di ricorso attengono:

– il primo, a ”Eccesso di potere per difetto di motivazione –- irragionevolezza ed arbitrarieta’ dell’azione amministrativa – violazione dei principi di trasparenza, correttezza e buon andamento – ingiustizia manifesta.”; contestandosi la mancata considerazione della parziale integrazione avvenuta tempestivamente e, quanto alle altre incombenze, che la ricorrente aveva formalizzato richiesta di interruzione dei termini procedimentali avendo domandato alla competente autorità rumena il rilascio dell’Adeverinta;

– il secondo a “Eccesso di potere per difetto di motivazione –- irragionevolezza ed arbitrarieta’ dell’azione amministrativa – violazione dei principi di trasparenza, correttezza e buon andamento – ingiustizia manifesta. violazione della l. 241/90”; tale mezzo censura, in sostanza, l’assenza assoluta di motivazione del provvedimento;

– il terzo a “Eccesso di potere per difetto di motivazione –- irragionevolezza ed arbitrarietà dell’azione amministrativa – violazione dei principi di trasparenza, correttezza e buon andamento – ingiustizia manifesta violazione del principio di eguaglianza e di non discriminazione – disparità di trattamento.”; la doglianza evoca, per l’essenza, la direttiva n. 2005/36 ed il D. Lgs n. 206/2007 attuativo, nonché il diritto alla libertà di circolazione dei lavoratori previsto dall’art. 45 del TFUE, sottolineando che i principi sottesi a dette normative non sarebbero stati osservati nel caso di specie;

– il quarto a “Eccesso di potere per difetto di motivazione –- irragionevolezza ed arbitrarietà dell’azione amministrativa – violazione dei principi di trasparenza, correttezza e buon andamento – ingiustizia manifesta. violazione della libertà di stabilimento e di circolazione dei lavoratori nello spazio comunitario. violazione dell’articolo 3 della direttiva 98/5”; il motivo si riferisce alla presunta violazione dell’art. 49 TFUE, relativo alla libertà di stabilimento, e della Direttiva 1998/5/CE;

– il quinto a “Eccesso di potere per difetto di motivazione –- irragionevolezza ed arbitrarietà dell’azione amministrativa – violazione dei principi di trasparenza, correttezza e buon andamento – ingiustizia manifesta”; tale contestazione attiene, per lo più, al mancato rispetto dei principi enunziati dal Consiglio di Stato in sede di Adunanza Plenaria (i.e. sentenze nn. 18, 19, 20, 21 e 22 del 28-29 dicembre 2022), di cui vengono riportati ampi stralci.

  1. – L’Amministrazione si è costituita in giudizio, prima con atto di mero stile e successivamente depositando una relazione esplicativa i cui contenuti essenziali verranno illustrati successivamente.
  2. – Con ordinanza di questa Sezione n. 1801 dell’8 maggio 2024 sono stati sospesi gli effetti del provvedimento di diniego impugnato, ed è stata fissata l’udienza per la discussione del merito all’8 ottobre 2024.

Nella predetta ordinanza il Collegio ha giustificato la decisione cautelare con le seguenti motivazioni: “il rigetto impugnato, basato su carenze di tipo formale, non appare prima facie conforme ai principi dettati in materia dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (in particolare sentenza n. 18/2022), posta la necessità di una verifica in concreto dei livelli di competenza professionale sottesi ai certificati e ai diplomi conseguiti, allegati dall’istante (cfr. TAR Lazio, IV-bis, nn. 7304 e 89/2024 e ord. n. 1144/2024);

la richiesta di integrazione documentale è stata formalizzata dal Ministero intimato, per la prima volta, a distanza di più di otto mesi dalla presentazione dell’istanza, pertanto oltre i termini previsti dalla direttiva 2005/36/CE, la quale peraltro non menziona espressamente alcuna necessità di apostille, dichiarazioni di valore o formule sacramentali”.

  1. – All’udienza indicata in epigrafe la causa è stata trattenuta per la decisione.
  2. – Il ricorso è fondato e va accolto, nei limiti e termini di cui appresso.
  3. – I motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente vista la loro reciproca connessione, fatta eccezione per il secondo, che può essere immediatamente dichiarato inammissibile in quanto generico ex art. 40, comma 2, c.p.a.. Inoltre, lo stesso è comunque infondato nel merito dal momento che una motivazione dei provvedimenti impugnati sussiste ed è comprensibile (seppure insufficiente come si dirà a breve).

Può altresì immediatamente delibarsi in ordine a quella parte del quarto motivo di ricorso che richiama la Direttiva 1998/5/CE, riguardante l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Tale normativa è inapplicabile al caso di specie ratione materiae, e deve dunque essere, in parte qua, subito respinto il predetto quarto mezzo.

  1. – Le doglianze della ricorrente vanno esaminate sia alla luce della Direttiva 2005/36/CE s.m.i. (“Direttiva”) sia alla luce degli articoli 45 e 49 del Trattato sul funzionamento dell’UE (“TFUE”) inerenti alla libera circolazione dei lavoratori ed alla libertà di stabilimento.

In effetti la ricorrente ha proposto deduzioni tanto rispetto alle norme della prima, afferenti alle professioni “regolamentate”, quanto rispetto ai secondi, che si applicano alle istanze di riconoscimento di una (mera) qualifica professionale, che rimane disciplinata dai principi del TFUE.

9.1. – Al riguardo vale notare che le sentenze di Adunanza Plenaria del dicembre 2022 (i.e. nn. 18, 19, 20, 21 e 22 del 28-29 dicembre 2022), che hanno definito in generale la questione delle corrette modalità di scrutinio delle domande del genere di quella in esame, non prendono posizione specifica sul tema, ritenendolo non dirimente nei casi esaminati, dal momento che la disciplina applicabile sarebbe stata sostanzialmente analoga.

Nello specifico, al punto 18 della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 22/2022 si legge: “Del resto, anche laddove non si voglia riconoscere la piena o la diretta applicabilità della Direttiva 2005/36/CE, come assume la Commissione nel già citato parere del 31 luglio 2019, persiste l’obbligo per le autorità italiane, come sostiene la stessa Commissione, di valutare le domande pertinenti ai sensi delle disposizioni più generali del TFUE in vista di un eventuale riconoscimento della formazione seguita, per quanto in assenza delle garanzie e dei requisiti di cui alla direttiva 2005/36/CE, e non è precluso alle stesse autorità di adottare queste garanzie, in modo estensivo, anche alla vicenda qui controversa”.

9.2. – Il Collegio condivide tale valutazione, ritenendola corretta e supportata da ampia giurisprudenza unionale, che quando esclude l’applicabilità della Direttiva chiarisce i termini dell’applicabilità del TFUE, delineando una disciplina in grande misura analoga (cfr. Corte di giustizia UE sentenze: 2 marzo 2023, causa C-270/21, A (Insegnante di scuola materna), punto 66; 3 marzo 2022, causa C-634/20, Sosiaali- ja terveysalan lupa- ja valvontavirasto – Formazione in medicina generale, punti da 38 a 46; 8 luglio 2021, causa C-166/20, Lietuvos Respublikos sveikatos apsaugos ministerija, punti 34 e 38; 6 ottobre 2015, causa C-298/14, Brouillard, punto 46 e ss.).

In altri termini, le previsioni della Direttiva appaiono applicabili in via analogica ai procedimenti per il riconoscimento delle qualifiche professionali che rientrano nel campo di azione delle regole del TFUE (ma non specificamente della Direttiva), perché le prime rappresentano una declinazione delle seconde.

Del resto l’art. 12 delle preleggi stabilisce che “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”, e le procedure e le modalità di riconoscimento di (mere) qualifiche riconosciute da paesi UE non sono disciplinate da “specifiche disposizioni”, pur avendo la medesima natura generale di quelle relative alle professioni regolamentate di cui alla Direttiva (ed infatti antecedentemente alla emanazione di quest’ultima si applicavano le norme del Trattato: cfr. sentenze 7 maggio 1991, causa C‑340/89, Vlassopoulou, punto 16; 13 novembre 2003, causa C‑313/01, Morgenbesser, punti 57 e 58; 8 luglio 1999, causa C‑234/97, Fernández de Bobadilla, punto 31; 22 gennaio 2002, causa C-31/00, Dreessen, punto 24).

  1. – Pertanto, come anticipato, si procede ad esaminare contestualmente tanto le censure basate sul TFUE, quanto quelle basate sulla Direttiva, dal momento che queste ultime sono espressione dei principi di libera circolazione e di proporzionalità di cui al TFUE.
  2. – Chiarito quanto sopra può passarsi ad esaminare la fattispecie concreta di cui al ricorso in epigrafe.

Per ragioni di ordine espositivo può principiarsi dalla questione della legittimità del respingimento a causa della mancanza di apostille nella documentazione presentata dal ricorrente.

11.1. – In merito, deve riscontrarsi anzitutto che si tratta di un adempimento, da un lato, non richiesto esplicitamente ex ante nel modulo di istanza predisposto dalla stessa Amministrazione, dall’altro non previsto dalla Direttiva, che mai menziona la Convenzione dell’Aja o la legalizzazione dei documenti, che nemmeno è contemplata dal D. Lgs. 206/2007 di recepimento della Direttiva.

Neppure altre norme unionali riferibili alla fattispecie appaiono imporre detto adempimento.

La Direttiva prevede invece, all’art. 50 integrato poi dall’Allegato VII, uno specifico sistema preordinato alla verifica della autenticità del titolo dello Stato d’origine, che si fonda, almeno in prima battuta, sul dialogo tra Stati membri e non sull’aggravamento della posizione del richiedente (nello stesso senso la legislazione nazionale, cfr. art. 8 comma 4, art. 17 comma 9 bis, del D. Lgs. 206/2007).

La Corte di giustizia, a sua volta, ha in diverse occasioni affermato che il principio di reciproca fiducia deve caratterizzare i rapporti tra gli Stati membri dell’UE, in particolare nell’ambito del reciproco riconoscimento di atti e documenti (sul tema per tutte Corte di giustizia UE sentenza 6 dicembre 2018, causa C-675/17, Hannes Preindl; sentenza del 19 giugno 2003, causa C‑110/01, Tennah‑Durez). Vero è che quanto sopra, nella specifica materia qui in esame, è stato declamato in particolare nei casi di riconoscimento automatico, ma rimane fermo che si tratta, sub specie di obbligo di leale collaborazione, di un principio generale dell’UE (per alcuni profili valorizzato nelle forme del principio della fiducia ad altri fini in alcune legislazioni nazionali: e.g. art. 2 del D. Lgs. 36/2023).

11.2. – Inoltre, ritiene il Collegio che, nel caso di specie, la prassi di richiedere l’apostille rappresenti un ostacolo alla libera circolazione nel mercato interno ai sensi del TFUE. Tale ostacolo non soddisfa i relativi presupposti di legittimità in quanto (pur essendo la misura indistintamente applicabile, mentre si può dubitare che risponda ad un interesse generale, ma sul tema non ci si intrattiene) esso dovrebbe comunque risultare rispettoso del principio di proporzionalità.

Sotto quest’ultimo punto di vista, invece, la richiesta di apostille non supera i tre scrutini in cui si articola il predetto principio (cfr. Corte di giustizia UE, sentenza del 15 giugno 2023, in causa C-132/22, BM, NP c. MIUR). Non è appagato il requisito della idoneità, giacché, in assenza di un sistema di controllo ad hoc, detta richiesta, di per sé, non evita i falsi, i quali potrebbero riguardare anche la apostille stessa; non soddisfa il requisito della necessità, in quanto all’uopo si può fare riferimento al sistema di cui all’art. 50 della Direttiva; non compiace il requisito della adeguatezza, dal momento che appare “più mite” un sistema di controllo ex post anche “a campione”.

11.3. – Nella relazione esplicativa dello stesso Ministero depositata agli atti di causa, l’Amministrazione espone che ritiene di non richiedere più tale incombente. Ivi si precisa comunque: “Benché la sussistenza, nelle istanze di riconoscimento, di elementi formali quali la legalizzazione dei documenti costituisca elemento necessario ai fini della validità dell’istanza – come previsto dalla normativa applicabile (art. 33 del DPR n. 445/2000 e Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961) e confermato dalla giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: ordinanza Cass. civ., Sez. lavoro, 11/08/2022, n. 24697, ordinanza Corte di cassazione, l’ordinanza Cass. civ., Sez. I, 11/06/2018, n. 15073) è ormai orientamento consolidato dell’Amministrazione quello di non rigettare le istanze di riconoscimento sull’unico presupposto della carenza di elementi formali”.

Tuttavia, non risultano interventi in parziale autotutela nel caso di specie, ed anzi sul tema è ancora pendente un contenzioso di non trascurabile entità (da considerarsi fatto notorio vista l’emanazione in notevole numero di ordinanze cautelari per casi analoghi), per cui permane l’interesse della ricorrente all’annullamento dell’atto impugnato anche sotto tale profilo.

11.4. – La posizione assunta dall’Amministrazione, di non pretendere più l’apostille, oltre che apprezzabile sotto il profilo della leale collaborazione, è comunque un ulteriore elemento significativo che conforta la soluzione sopra adottata dal Collegio nel senso della illegittimità della relativa richiesta.

Vale soltanto notare che la giurisprudenza (i.e. ordinanza Cass. civ., Sez. lavoro, 11 agosto 2022, n. 24697, ordinanza Cass. civ., Sez. I, 11 giugno 2018, n. 15073) citata dal Ministero quale supporto, in astratto, della richiesta di apostille non appare conferente, trattandosi di questioni non oggetto di armonizzazione UE e comunque non direttamente funzionali alla libera circolazione nel mercato interno, ossia la certificazione medica (peraltro di paesi non UE) per assenze da lavoro e la procura alle liti.

11.5. – In ogni caso, ed è argomento autonomamente decisivo, anche alla richiesta di apostille devono applicarsi i principi in tema di regolarizzazione istruttoria che verranno evidenziati infra.

  1. – Venendo alla richiesta della Adeverinta, ossia il certificato ministeriale recante l’attestato di “abilitazione” all’insegnamento in una determinata materia, deve osservarsi quanto segue.

12.1. – A fronte dei motivi di ricorso, l’Amministrazione sostiene che la direzione dalla stessa intrapresa sarebbe corretta in quanto, nel procedimento amministrativo di riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero, occorrerebbe distinguere tra qualsiasi altra carenza di tipo formale e l’assenza di Adeverinta.

Quest’ultima costituirebbe un documento fondamentale ai fini dell’istruttoria, in difetto del quale l’Amministrazione non potrebbe compiutamente definire la procedura, e sarebbe tenuta a rigettare una istanza di riconoscimento non supportata dalla relativa presenza per questioni che attengono prettamente e imprescindibilmente all’esame posizione del richiedente.

Quanto appena veduto troverebbe conforto anche nella più recente giurisprudenza amministrativa, oltre che nelle pronunce della Corte di giustizia UE.

Posto che con il termine Adeverinta si fa riferimento all’attestazione con cui la competente autorità dello Stato membro in cui il titolo è stato conferito, il Ministero dell’educazione romeno, certifica il valore abilitante della formazione conseguita sul territorio dello Stato, indicando la disciplina specifica in cui l’abilitazione è stata conseguita, oltre alla fascia d’età degli alunni, in assenza di tale certificato l’Amministrazione non disporrebbe di informazioni essenziali ai fini della comparazione tra la formazione del richiedente e quella prevista dall’ordinamento interno per l’abilitazione all’insegnamento.

Solo l’Adeverinta metterebbe l’Amministrazione in condizione di comprendere quale sia la classe di concorso più aderente al percorso formativo dell’istante ai fini dell’eventuale riconoscimento (non avendo a tal fine alcun valore, se non meramente indicativo, per quale/i classe/i di concorso sia stata formulata la richiesta di riconoscimento).

Viene richiamato in proposito l’orientamento di questa Sezione in tema di necessaria corrispondenza tra la qualifica professionale conseguita all’estero e la classe di concorso per cui si chiede l’abilitazione in Italia, in particolare la sentenza n. 12473/2022 con cui è stato chiarito che: “il riconoscimento viene rilasciato quando vi sia una corrispondenza tra la qualifica professionale conseguita all’estero e quella per la quale si chiede il riconoscimento in Italia, con la conseguenza che il soggetto può svolgere nell’ambito nazionale la stessa attività che potrebbe svolgere nel Paese in cui ha ottenuto la qualifica professionale”. Nel caso menzionato, la ricorrente era in possesso di una Adeverinta che ne attestava “il diritto all’insegnamento preuniversitario in Romania nel campo Filologia” e lamentava il rigetto della sua istanza di riconoscimento sulle classi di concorso relative all’insegnamento delle lingue inglese e spagnola. E proprio dall’esame dell’Adeverinta la Sezione, accogliendo la posizione dell’Amministrazione, ha potuto concludere che “l’istante risulta sprovvista di qualsivoglia abilitazione relativa all’insegnamento dell’inglese e dello spagnolo, ossia per le classi per cui è stato richiesto il riconoscimento, facendo il titolo riferimento all’ambito della filologia. In questo senso dopo aver analizzato i titoli presentati dalla ricorrente, si precisa che questi non sono attinenti e coincidenti con la classe di concorso richiesta”.

Nella stessa sentenza si precisa che “quanto riportato nell’attestato o Adeverintia ha valore dirimente in quanto è l’unico attestato “avente ufficiale e specifica attitudine certificativa dello spettro ossia della latitudine della abilitazione conseguita … ed attestante quindi quali materie in concreto il percorso di studio svolto dalla deducente, sia nel segmento svolto nello stato ospite nel ciclo di studi universitari prodromico, sia nel percorso di abilitazione svolta sul campo nello Stato ospitante, rende il laureato idoneo ad insegnare” (ex multis, sentenze n. 1165 del 2021, n. 5751 del 2021, n. 8698 del 2021)”.

Né si potrebbe ritenere che le informazioni necessarie al confronto tra la formazione di cui la richiedente è in possesso e la classe di concorso richiesta possano essere ricavate dal solo diploma di laurea, avendo anch’esso un valore meramente indicativo ai fini della decisione dell’Amministrazione su quale sia la classe di concorso più aderente al profilo dell’istante.

In tal senso andrebbero altresì alcune significative pronunce del Consiglio di Stato, tra cui la recente sentenza n. 2661/2024 in cui la VII Sezione ha affermato: “come già chiarito da questa Sezione (cfr., sentenza n. 7715 dell’8 agosto 2023) deve escludersi qualsiasi sovrapposizione concettuale tra la nozione di corso di studi universitario e quella di corso di formazione per l’abilitazione (o “corso abilitante”). Il primo è, infatti, un percorso di studi, su base principalmente, se non esclusivamente, teorica, che è finalizzato a dare al discente una preparazione nozionale e culturale sulle materie di elezione. Quando e se, una volta laureato, costui deciderà di insegnare nelle scuole le suddette materie, assumendo il diverso profilo di docente, necessiterà della frequenza di un corso abilitante (per l’appunto, alla professione di docente), che da un punto di vista sia teorico che pratico rappresenta una ben diversa nozione, così come è diverso l’abilitato dal semplice laureato. […] 3.2. La differente funzione dei titoli di cui si discute si spiega con l’evidente differenza che intercorre tra la conoscenza di una determinata materia (fatto attestato dal diploma di laurea) e saperla insegnare (fatto attestato dal titolo abilitante), di cui la prima è condizione necessaria, ma non sufficiente per la seconda.”.

Il Consiglio di Stato andrebbe addirittura oltre chiarendo che “nel caso di specie non vengono in rilievo i principi espressi dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 22 del 2022 […] anche a voler ritenere che non sia stata effettuata una verifica accurata […] ciò non toglie che la palese non adeguatezza del titolo posseduto dall’appellante rendeva il giudizio negativo vincolato, con conseguente irrilevanza del denunciato difetto di motivazione”.

Da tali elementi giurisprudenziali dovrebbe ricavarsi il seguente sillogismo: se il Consiglio di Stato ha ritenuto non necessaria la comparazione richiesta dall’Adunanza Plenaria a causa di un’Adeverinta che indicava una formazione palesemente inadeguata rispetto alla classe di concorso richiesta, ritenendo vincolato il rigetto deciso dall’Amministrazione, allo stesso modo ed a maggior ragione dovrebbe escludersi la accoglibilità di istanze in cui, come nel caso di specie, l’Adeverinta è del tutto assente.

L’obbligatorietà dell’Adeverinta come presupposto per l’esame dell’istanza discenderebbe anche dal diritto europeo e, in particolare, dall’art. 13 della Direttiva in base al quale: “Se, in uno Stato membro ospitante, l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato membro permette l’accesso alla professione e ne consente l’esercizio, alle stesse condizioni previste per i suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’articolo 11, prescritto da un altro Stato membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio. Gli attestati di competenza o i titoli di formazione sono rilasciati da un’autorità competente di uno Stato membro, designata nel rispetto delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di detto Stato membro”.

Il carattere indispensabile dell’attestato di competenza o Adeverinta discenderebbe altresì dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, che nella sentenza dell’8 luglio 2021, in causa C-166/20, BB, avrebbe chiarito che allo Stato membro ospitante non può essere imposto, salvo disattendere l’obiettivo della direttiva 2005/36/CE, di esaminare i titoli di formazione posseduti da un richiedente che non possiede le qualifiche necessarie per esercitare la professione nello Stato membro d’origine (cfr. punto 28).

In conclusione, nell’impostazione dell’Amministrazione, l’assenza di Adeverinta rappresenterebbe una carenza documentale che renderebbe impossibile l’esame della posizione dell’istante, non solo da un punto di vista formale ma anche e soprattutto da un punto di vista sostanziale, dal momento che l’Amministrazione non disporrebbe di informazioni certe sulla formazione conseguita in Romania e sulla sua spendibilità, in quello Stato, come qualifica professionale.

Quanto appena esposto sul carattere indispensabile dell’Adeverinta ai fini del decidere provvedimentale avrebbe trovato, da ultimo, conforto anche nella recente ordinanza n. 2521 del 3 luglio 2024 del Consiglio di Stato, che ha definito l’Adeverinta come “documentazione essenziale al fine dell’espletamento della valutazione in ordine al riconoscimento del titolo estero” e rilevato che “le carenze documentali che vengono in rilievo appaiono rivestire una valenza non meramente formale”.

12.2. – Al fine di delibare in ordine ai motivi di ricorso, il Collegio deve necessariamente esaminare la menzionata difesa della parte resistente. Al riguardo deve subito anticiparsi che la posizione dell’Amministrazione non può essere in toto condivisa, e la giurisprudenza dalla stessa citata in parte non è pertinente ed in parte è insufficiente al fine di superare la persuasività dei motivi di ricorso.

12.3. – In primo luogo, la tesi dell’esistenza di documenti che rappresenterebbero presupposti essenziali o requisiti costitutivi di una istanza di riconoscimento di un titolo formativo o abilitativo, tali da rendere il procedimento ad esito negativo obbligato in caso di loro assenza, omessa ogni attività istruttoria, non trova riscontro nella Direttiva né in altra norma UE, qualora vengano presentati (appunto) titoli di formazione o di abilitazione (o sin anche esperienze professionali).

Il riferimento all’art. 13 della Direttiva operato dall’Amministrazione non pare cogliere nel segno, in quanto ivi si fa riferimento sia ad un “attestato di competenza” sia ad un “titolo di formazione di cui all’articolo 11” e se l’Adeverinta va ragionevolmente considerata un attestato di competenza, il “Nivel” (che è in sostanza un corso di formazione psico-pedagogica: trattasi di fatto notorio alla luce delle citate sentenze di Adunanza Plenaria del dicembre 2022) rappresenta ragionevolmente un “titolo di formazione”. L’uno e l’altro sono rilasciati da un’autorità competente di uno Stato membro, designata nel rispetto delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di detto Stato membro, e sin quando non si dimostri che l’Università che rilascia il Nivel non può essere considerata una autorità competente di uno Stato membro, ovvero che non si rientri nel campo dei titoli assimilati ex art. 12 della Direttiva, non è possibile ricavare dalla norma in parola che l’istanza munita solo di “Nivel” debba a priori essere respinta.

12.4. – In secondo luogo, la prospettiva adottata dall’Amministrazione non appare coerente con le sentenze di Adunanza Plenaria innanzi citate.

Infatti, al punto 9 della sentenza n. 18/2022 si afferma piuttosto assertivamente (“comunque”) che: “Nella medesima ottica di favore non può dunque ritenersi esclusa, ma anzi deve ritenersi necessaria, una verifica in concreto delle competenze professionali comunque acquisite nel Paese d’origine dal richiedente il riconoscimento e della loro idoneità all’accesso alla ‘professione regolamentata’ in quello di destinazione.”).

Quindi le competenze professionali possono essere acquisite “comunque” dal richiedente.

Ma i ripetuti arresti plenari vanno molto oltre stabilendo (e.g. al punto 10 sempre della sentenza n. 18/2022) che “Nella prospettiva finora delineata, la mancanza dei documenti necessari ai sensi del più volte art. 13 della direttiva 2005/36/CE non può pertanto essere automaticamente considerata ostativa al riconoscimento della qualifica professionale acquisita in uno Stato membro dell’Unione europea, dovendosi verificare in concreto il livello di competenza professionale acquisito dall’interessato, valutandolo per accertare se corrisponda o sia comparabile con la qualificazione richiesta nello Stato di destinazione per l’accesso alla ‘professione regolamentata’”.

Quindi le verifiche vanno fatte anche in “mancanza dei documenti necessari”.

Vero è che tale sentenza riguarda il riconoscimento di un titolo bulgaro, ma è anche vero che dovrebbe comunque applicarsi una disciplina omogenea per i titoli provenienti dalla Romania e dalla Bulgaria, che poi è la soluzione sostanziale cui giungono le citate sentenze di Adunanza Plenaria, le quali, al di là di qualche sfumatura, non paiono divergere sotto il profilo in esame.

Infine, ed anche esso è elemento significativo, pure nelle sentenze plenarie afferenti ai titoli rumeni (per tutte la 22/2022) si afferma che “Il Ministero appellante deve dunque esaminare le istanze di riconoscimento del titolo formativo conseguito in Romania, tenendo conto dell’intero compendio di competenze, conoscenze e capacità acquisite, e verificando che «la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno»”.

Il lessico adoperato non sembra casuale, rileva anche il “titolo formativo”, non soltanto il “titolo professionale”.

Nello stesso senso i punti da 18 in poi del menzionato arresto che non si citano per obbligo di sintesi.

12.5. – Agevole, in terzo luogo, è il superamento dell’argomento dell’Amministrazione secondo cui anche la giurisprudenza della Corte di giustizia UE riconoscerebbe la “non esaminabilità” di taluni attestati professionali.

Vero è che la Corte ha affermato che i titoli che non rientrano nel campo di applicazione della Direttiva non devono essere oggetto di valutazione ai sensi di detto corpus normativo (ad esempio nella sentenza BB citata dall’Amministrazione e sopra ricordata).

Ma nella medesima pronunzia si afferma inoltre (punto 2 della massima) che in casi del genere si applica comunque il TFUE con effetti giuridici non dissimili: “Gli articoli 45 e 49 TFUE devono essere interpretati nel senso che, in una situazione in cui l’interessato non possiede il titolo che attesta la sua qualifica professionale di farmacista, ai sensi dell’allegato V, punto 5.6.2, della direttiva 2005/36, come modificata dalla direttiva 2013/55, ma ha acquisito competenze professionali relative a tale professione tanto nello Stato membro d’origine quanto nello Stato membro ospitante, le autorità competenti di quest’ultimo sono tenute, quando ricevono una domanda di riconoscimento di qualifiche professionali, a valutare tali competenze e a confrontarle con quelle richieste nello Stato membro ospitante ai fini dell’accesso alla professione di farmacista. Se tali competenze corrispondono a quelle richieste dalle disposizioni nazionali dello Stato membro ospitante, quest’ultimo è tenuto a riconoscerle. Se da tale esame comparativo emerge una corrispondenza solo parziale tra queste competenze, lo Stato membro ospitante ha il diritto di esigere che l’interessato dimostri di aver acquisito le conoscenze e le qualifiche mancanti. Spetta alle autorità nazionali competenti valutare, se del caso, se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante, nell’ambito, in particolare, di un’esperienza pratica, siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti. Se detto esame comparativo evidenzia differenze sostanziali tra la formazione seguita dal richiedente e la formazione richiesta nello Stato membro ospitante, le autorità competenti possono fissare misure di compensazione per colmare tali differenze.”.

12.6. – In quarto luogo, le sentenze di questa Sezione citate dall’Amministrazione sono antecedenti alle menzionate pronunzie Plenarie, e riguardano un caso peculiare, quello dei docenti aventi “abilitazione” professionale rumena in “Filologia” che intendono acquisire la abilitazione in lingue in Italia.

Anche la sentenza del Consiglio di Stato del 19 marzo 2024, n. 2661, riguarda tale fattispecie e, al di là di alcuni passaggi assertivi, la stessa non pare stabilire la assoluta impossibilità di esaminare un certo genere di istanze, ma soltanto il principio, da sempre condiviso da questa Sezione, secondo cui il titolo professionale estero deve essere coerente con quello per il quale si chiede il riconoscimento.

Ma la valutazione della coerenza non sembra possa considerarsi inibita “in assoluto”, sempre e comunque, in caso di mancanza dell’attestato professionale, perché possono soccorrere gli attestati di formazione esteri (nel caso di specie i Nivel) e nazionali, oltre che l’esperienza concreta (quasi sempre nazionale).

Del resto, nell’ottica del rispetto del principio di proporzionalità, qualora manchi l’Adeverinta potrebbero essere disposte misure compensative più significative di quelle ordinarie.

Deve infatti considerarsi che mentre nella Direttiva è previsto che si possa arrivare sino a tre anni di tirocinio di adattamento secondo prassi e giurisprudenza auspicabilmente consolidate, in linea di massima, qualora si sia in possesso di Adeverinta, le misure compensative consistono, oltre che nella possibilità di sostenere un esame sostanzialmente abilitativo, in 300 ore di tirocinio nell’arco di un anno. Quindi potrebbe essere sufficiente incrementare le misure compensative. Parimenti, in particolari circostanze, la Direttiva consente di imporre come misura compensativa soltanto la prova attitudinale senza possibilità di sostituzione con il tirocinio.

In altre parole, il necessario rispetto del principio di proporzionalità (nei termini in precedenza esposti) implica che “l’evidente differenza che intercorre tra la conoscenza di una determinata materia (fatto attestato dal diploma di laurea) e saperla insegnare (fatto attestato dal titolo abilitante)” (sentenza Consiglio di Stato sopra citata) non si traduca in una formula assoluta e perentoria, visto che nell’ambito delle misure compensative previste dalla Direttiva (art. 14), che appunto possono avere durata fino a tre anni nella forma del tirocinio, sono ampiamente programmabili percorsi che mirino a formare specificamente sul “sapere insegnare” una materia.

12.6.1. – Occorre comunque chiarire che dalla affermazione che precede non può derivare in maniera semplice e diretta il riconoscimento necessitato di ogni istanza in tale senso previe eventuali misure compensative, dovendosi appunto valutare in concreto il percorso formativo e abilitativo del richiedente nella sua complessità, e da tale valutazione ben può risultare che il titolo non possa essere in alcun modo riconosciuto, per esempio perché la laurea vantata non è pertinente alla classe di concorso richiesta o perché emerge un vistoso disallineamento tra la formazione universitaria e quella attestata dal titolo (formativo o abilitativo) estero.

In questo scenario, l’assenza di Adeverinta non può essere una barriera preconcetta al riconoscimento del titolo, che invece può eventualmente avvenire con misure compensative aggravate rispetto alla prassi ed alla giurisprudenza maturate sinora. Il mancato riconoscimento, sempre e comunque possibile, deve essere il risultato dell’esame in concreto della formazione e dei titoli, non una aprioristica negazione della ammissibilità dell’istanza se sprovvista di titolo professionale.

12.6.2. – Oltretutto, sarebbe molto penalizzante per lo Stato membro “ospitante” o di destinazione dover recepire il titolo professionale rilasciato dal “paese di origine” qualora parte della formazione sia stata svolta presso le sue istituzioni didattiche e/o universitarie.

In sostanza lo Stato membro “ospitante” dovrebbe accettare il titolo professionale ottenuto in altro paese UE in una determinata materia senza valutare, o con limitate possibilità di valutare, il percorso formativo svolto nel paese presso il quale si chiede il riconoscimento, quando invece potrebbe rivelarsi più significativo il detto percorso formativo antecedente a quello che ha portato (all’estero) al titolo professionale.

Nel caso di specie finirebbe per valere molto di più il titolo professionale rumeno rispetto alla formazione universitaria svolta in Italia, e tale soluzione appare paradossale dal momento che la seconda è stata di durata molto maggiore rispetto al primo.

12.7. – In quinto luogo, sempre sulla questione della Adeverinta, conviene osservare che altra recente giurisprudenza sempre della VII Sezione del Consiglio di Stato sembra ritenere i Nivel autonomamente rilevanti.

Ci si riferisce alle sentenze in cui si afferma che “Infine, a maggior ragione esistendo un pregresso giudicato che aveva ritenuto illegittimo l’originario diniego opposto alla richiesta di abilitazione formulata dalla parte, è quanto meno dubbio che i certificati Nivel I e II ottenuti dalla parte appellante non potessero ritenersi, già di per sé, titoli equipollenti dell’Adeverinta, che non era ancora stata rilasciata, e che avrebbe successivamente dovuto essere oggetto del riconoscimento.” (Cons. Stato, sez. VII, 16 maggio 2024, n. 4345, e n. 4346).

Il Collegio ben comprende che le menzionate pronunzie sono basate anche sulla considerazione del giudicato, ma rimane il fatto che l’Adeverinta non pare avere assunto in maniera costante, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, valenza dirimente.

In tale ottica si consideri altresì, sempre per esempio, che con la sentenza del 27 dicembre 2023, n. 11237, è stato accolto l’appello avverso un rigetto, confermato in prime cure, che afferiva alla richiesta di insegnare nelle classi di concorso A-28 “Matematica e scienze” e ADMM (Sostegno nella scuola secondaria di I grado) ed ADSS (Sostegno nella scuola secondaria di II grado), sulla scorta di una Adeverinta in “biologia”, in presenza, addirittura, di un positivo riconoscimento ministeriale del titolo estero quanto alla classe di concorso A-50 “Scienze naturali, chimiche e biologiche” nella scuola secondaria di II grado (il che per la verità poteva portare ad escludere che fosse violato il principio di proporzionalità).

Nel caso appena citato pare di capire che il limitato ambito descritto dalla Adeverinta, ossia “biologia”, è stato ritenuto non dirimente (rectius insignificante) in quanto in base alla laurea posseduta la ricorrente avrebbe avuto la possibilità di accedere alle altre classi di concorso.

Parimenti, in altra sentenza (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 9 luglio 2024, n. 6089), è stato affermato che non può condividersi una motivazione di respingimento basata sul fatto che l’attestazione rilasciata dal Ministero dell’Educazione Nazionale della Romania, il quale dichiara che il titolo indicato nel dispositivo conferisce, in Romania, all’interessata “il diritto all’insegnamento nel campo Matematica”, sarebbe di per ciò solo adeguata e sufficiente al fine di escludere che possa essere riconosciuta una ulteriore classe di concorso oltre alla detta matematica. Infatti “Ad avviso del Collegio, al contrario, tale locuzione non è affatto sufficiente ed anzi si pone in conflitto con l’indirizzo esegetico seguito in materia dall’Adunanza Plenaria (sentenze n. 18/2022), secondo cui la comparazione tra la formazione compiuta all’estero (Stato di provenienza) e quella prevista dallo Stato di appartenenza va sempre effettuata in concreto.”.

Non è quindi dimostrato che l’Adeverinta sia essenziale ed indispensabile per il riconoscimento, anzi addirittura, secondo alcuni orientamenti del Consiglio di Stato, potrebbe essere in contrasto con l’indirizzo plenario attenersi a detto certificato quanto alla individuazione della disciplina.

Nemmeno sotto il profilo della durata sembra che possa ritenersi cruciale l’Adeverinta.

In proposito, è sufficiente notare che è fatto notorio, evidenziato in migliaia di Adeverinta esaminate dall’Amministrazione (e dalla giurisprudenza di primo e secondo grado), che il Nivel I appare “conferire”, in Romania, il “diritto” di insegnare nella scuola elementare, fascia di età 6-10 anni, e nella scuola media, fascia di età 11-14 anni, mentre il Nivel II appare “conferire” in Romania il “diritto” ad insegnare al livello liceale, fascia di età 15-18 anni, e post diploma, fascia di età 19-21 anni.

Le sentenze plenarie hanno parimenti esaminato, seppure non ex professo, i Nivel mai escludendo che gli stessi possano assumere valenza ai fini del riconoscimento o comunque in sede procedimentale (cfr. punto 13 sentenza n. 19/2022, punto 14 sentenze 20/2022, 21/2022 e 22/2022).

Per cui, al di là di alcuni elementi criptici e critici dell’ordinamento rumeno, non appare giustificata l’enfasi posta dall’Amministrazione sul fatto che solo l’Adeverinta darebbe elementi certi ed indicherebbe la materia e la fascia di età per la quale l’abilitazione professionale del menzionato paese sarebbe valida.

  1. – Per tutte le ragioni che precedono, in assenza di chiarimenti in sede plenaria o da parte della Corte di giustizia UE, non può condividersi la motivazione dell’ordinanza n. 2521 del 3 luglio 2024 del Consiglio di Stato, parimenti citata dall’Amministrazione, qualora la stessa fosse da intendere nel senso della possibile sussistenza di elementi “essenziali” o “costitutivi” dell’istanza, rappresentati specificamente dalla Adeverinta, la cui assenza impedirebbe, in casi simili a quello in esame, l’esame della stessa alla stregua della Direttiva e/o ai sensi del TFUE.

Al contrario, tale ipotesi è esclusa dal TFUE, dalla Direttiva, dalla giurisprudenza UE e dagli arresti di Adunanza Plenaria, come sopra ricordato, nei limiti in cui, ovviamente, siano stati effettivamente presentati per il riconoscimento titoli formativi (come i Nivel) o (almeno potenzialmente) abilitativi (come l’Adeverinta).

  1. – In definitiva, ritiene il Collegio che l’Adeverinta “ministeriale” costituisca, al pari dei Nivel “universitari”, un atto con valore certificativo del percorso formativo svolto dall’istante.

Sotto tale profilo, dunque, l’Adeverinta si pone quale elemento utile – ma non necessario – del procedimento volto alla corretta attribuzione della classe di concorso di abilitazione, in quanto per il tramite della stessa viene ulteriormente chiarita – rispetto a quanto già risultante dai Nivel – la qualificazione estera del percorso formativo del richiedente, cui si aggiunge la dichiarazione del relativo effetto, che appare praticamente automatico nell’an, sotto il profilo del rilascio dell’attestato di competenza.

Nell’ambito della istruttoria afferente al riconoscimento dei titoli formativi ed abilitativi, dunque, l’Amministrazione può richiedere non solo i Nivel – elementi costitutivi delle valutazioni afferenti al riconoscimento di titoli formativi e abilitativi UE in base alla Direttiva ed al Trattato sotto il profilo della durata e della qualità della formazione – ma anche l’Adeverinta quale ulteriore elemento istruttorio utile per la corretta attribuzione della classe di concorso di abilitazione e ulteriormente certificativo del percorso formativo del richiedente.

In tale prospettiva, conseguentemente, se può essere giustificata, in particolare in caso di istanza di riconoscimento pluriclasse, la richiesta da parte della Amministrazione della (ulteriore) certificazione di cui si discorre, al contrario, l’assenza dell’Adeverinta non può di per sé condurre al rigetto della istanza, dovendo l’Amministrazione effettuare, in ogni caso, una valutazione concreta ed individuale dei titoli formativi acquisiti dall’interessato, cioè dei Nivel, anche essi “certificati” talvolta con distinte attestazioni.

  1. – Quanto sopra è già dirimente ed assorbente per la soluzione del caso in esame, tuttavia occorre rilevare, in via parimenti ed autonomamente decisiva per la risoluzione della presente causa, che non è stato correttamente esperito il procedimento di regolarizzazione o di “soccorso istruttorio” da parte dell’Amministrazione in relazione alla Adeverinta.

15.1. – A tale riguardo, in primo luogo, per tutte le ragioni sopra evidenziate, deve notarsi che non può ritenersi che la Adeverinta sia un documento talmente essenziale da non essere nemmeno “regolarizzabile”.

Osta a tale conclusione quanto sopra illustrato nonché la stessa prassi dell’Amministrazione che effettivamente ha domandato al richiedente di integrare la propria istanza con il predetto documento.

In secondo luogo, la Direttiva, che (come detto) agevolando l’applicazione delle libertà di circolazione del TFUE è applicabile per analogia qualora si tratti di prendere in considerazione le disposizioni di quest’ultimo sul tema, non prevede espressamente casi di non regolarizzabilità, visto che all’art. 51, rubricato “Procedura di riconoscimento delle qualifiche professionali”, stabilisce che: “1. L’autorità competente dello Stato membro ospitante accusa ricevuta della documentazione del richiedente entro un mese a partire dal suo ricevimento e lo informa eventualmente dei documenti mancanti.

  1. La procedura d’esame della richiesta di autorizzazione per l’esercizio di una professione regolamentata va completata prima possibile con una decisione debitamente motivata dell’autorità competente dello Stato membro ospitante e comunque entro tre mesi a partire dalla presentazione della documentazione completa da parte dell’interessato. Tuttavia questo termine può essere prorogato di un mese nei casi di cui ai capi I e II del presente titolo.
  2. La decisione, o la mancata decisione nei termini prescritti, può essere oggetto di un ricorso giurisdizionale di diritto nazionale.” (non dissimile è l’art. 16 del D. Lgs. 206/2007).

15.2. – Assodato in modo certo (ed a prescindere dalla valenza dei Nivel) che l’Adeverinta è passibile di richiesta di integrazione documentale, deve notarsi che la previsione del menzionato art. 51 è chiara nell’imporre allo Stato membro di informare il richiedente delle eventuali carenze nella sua documentazione entro un mese dal ricevimento dell’istanza. A questo punto lo Stato membro destinatario dell’istanza dovrebbe concludere la procedura prima possibile e comunque entro tre mesi, ma solo a far data dal ricevimento della documentazione completa da parte dell’interessato.

Si tratta all’evidenza di una procedura improntata al principio di proporzionalità.

L’Amministrazione deve comunicare entro un mese le carenze eventualmente riscontrate.

L’interessato, se vuole fare scattare il predetto termine di tre mesi, deve completare la sua documentazione.

Nel caso di specie l’Amministrazione non ha seguito tale procedura, rimanendo in una prima fase inerte per circa un anno e mezzo, successivamente ha assegnato termini perentori di circa un mese al richiedente per completare la sua documentazione, ed infine non ha accettato istanze di proroga né integrazioni tardive, denegando il riconoscimento senza peraltro nemmeno valutare una parziale integrazione avvenuta nei termini.

Tale contegno si configura come un ostacolo alla libertà di circolazione e non rispetta il principio di proporzionalità, perché non soddisfa: (i) né il requisito dell’idoneità, in quanto assegnare termini perentori dopo essere venuti meno ai propri obblighi non realizza l’interesse pubblico alla celerità della procedura; (ii) né il requisito della necessità, in quanto in assenza di integrazione della documentazione, come visto, non scatta il termine di tre mesi; (iii) e nemmeno il requisito della adeguatezza in quanto il “mezzo più mite” è quello previsto dalla Direttiva, con le possibili tolleranze derivanti dalla sua non applicabilità diretta nella fattispecie, se quest’ultimo rientrasse nel campo di applicazione del TFUE.

In particolare, la ricorrente ha ottenuto l’Adeverinta successivamente alla scadenza del termine imposto dall’Amministrazione, ma, per quanto sopra ricordato, di detto certificato doveva essere consentito il deposito in sede procedimentale, come effettivamente richiesto, anche eventualmente ai fini del riesame.

15.3. – Al contrario, non risponde al principio di proporzionalità per come disegnato alla stregua di archetipo dall’art. 51 della Direttiva, il sistema ipotizzato dall’ordinanza del Consiglio di Stato n. 2521 del 3 luglio 2024, ossia il mantenimento del rigetto consentendosi il deposito di una nuova istanza stavolta completa.

Si tratta infatti di un procedimento che incita l’inerzia (contrastando anche col principio di buon andamento ex art. 97 Cost.), consentendo all’Amministrazione di rimanere silente senza conseguenze un anno e mezzo, o anche più, e di rifiutare la proroga di un termine che per lei non comporta alcun effetto negativo. Difatti, alla luce del ripetuto art. 51, l’ulteriore termine di tre mesi entra in funzione solo da quando il richiedente completa la sua istanza con la documentazione necessaria.

Nell’impostazione qui criticata, inoltre, dovrebbe aprirsi un ulteriore procedimento per decidere in ordine alla rinnovata istanza di riconoscimento, con inutile complicazione e duplicazione dell’attività amministrativa, quando quest’ultima, è fatto notorio, è già in difficoltà nel trattare le domande una sola volta (al riguardo si vedano, tra le circa trecento ordinanze della Sezione del solo 2024 afferenti a richieste di revoca del Commissario ad acta, rimasto inattivo dopo un ordine di completare il procedimento, le nn. 19710, 19619, 18802, 18799, 18793, 18791, 18774, 18553, 17973, 17554, 17517, 15892, 14643, 14642, 14303, 13790, 13585, 12807, 12623, 9589).

Oltretutto, non è ben chiaro quale sarebbe lo status giuridico del richiedente nel corso di tale secondo procedimento, ossia se egli possa beneficiare della presunzione relativa di possesso della abilitazione a seguito della presentazione dell’istanza prevista (forse inevitabilmente per rispettare il diritto UE) in talune normative disciplinanti le supplenze ed i concorsi.

In altre parole, potrebbe crearsi il paradosso per cui il richiedente attende anni la conclusione del primo procedimento, ed in tali anni egli può insegnare grossomodo (come supplente) tutto quanto richiesto e partecipare ai concorsi, poi la sua istanza viene rigettata ma dopo pochi mesi, o giorni, procuratosi la Adeverinta, il medesimo docente ripropone l’istanza beneficiando per un altro paio di anni della presunzione derivante dalla presentazione dell’istanza di riconoscimento.

Tale paradosso conforta, sotto il profilo sistematico, la soluzione adottata dal Collegio.

15.4. – Nemmeno colgono nel segno le tesi dell’Amministrazione secondo cui: (i) il termine di 30 giorni previsto dall’art. 16 del D. Lgs 206/2007 andrebbe inteso come meramente ordinatorio; (ii) la ricorrente ha presentato istanza di riconoscimento in data 20.07.2022, la richiesta di integrazione è del 02.01.2024, il preavviso di rigetto del 23.02.2024 e il provvedimento finale del 12.03.2024 ed in questo lungo arco temporale l’interessata avrebbe dovuto produrre la documentazione completa a sostegno della propria istanza; (iii) vista la contestazione del silenzio serbato dall’Amministrazione, da cui era derivata sentenza n. 1633/2023 del TAR che ordinava la decisione, l’Amministrazione era tenuta ad esitare l’istanza.

A tale riguardo, vero è che i termini previsti dalle norme nazionali sono ordinatori, così come quelli previsti dalla Direttiva, ma è altrettanto vero che il mancato rispetto di tali termini, in particolare il primo che assegna un mese all’Amministrazione per domandare integrazioni documentali, non può rimanere senza effetto rispetto agli obblighi gravanti sul richiedente, che devono in conseguenza essere alleviati, anche in ossequio ai principi di correttezza e buona fede invocati dalla stessa Amministrazione.

In tale scenario, l’Amministrazione può rimediare al suo inadempimento concedendo proroghe ad hoc, ovvero consentendo al richiedente di integrare la propria istanza entro tre mesi, ossia applicando in via analogica il termine previsto dalla Direttiva per la decisione finale nel caso in cui l’istanza fosse completa (fermo il diverso e successivo termine di tre mesi a far data dal completamento dell’integrazione di cui all’art. 51 della Direttiva).

15.5. – Oltretutto, ed è argomento autonomo e dirimente, in base alla Direttiva (ed ai principi del TFUE), è perfettamente fisiologico che il richiedente presenti una istanza incompleta, per tale motivo è previsto esplicitamente che l’Amministrazione debba procedere a domandare integrazioni entro un mese.

Inoltre, sempre nell’ottica del favor per il richiedente, rileva causalmente ed in via pregnante anzitutto l’inadempimento della Amministrazione rispetto alla richiesta di integrazione prevista dalla Direttiva (e dai principi del TFUE), che rende per il richiedente non agevole comprendere la necessità, o meno, di alcuni documenti (peraltro in una materia che è stata sottoposta alla Adunanza Plenaria per essere dipanata e che tutt’ora riscontra orientamenti non univoci in giurisprudenza e nella stessa prassi del Ministero) e giustifica dunque eventuali richieste di proroga.

15.6. – Infine, quanto all’intervenuta pronunzia sul silenzio, è evidente che se l’Amministrazione avesse fatto presente in sede giurisdizionale o in sede di esecuzione del giudicato l’incompletezza della istanza il giudice avrebbe provveduto di conseguenza.

Ma in tutta la fase successiva alle sentenze di Adunanza Plenaria del dicembre 2022 l’Amministrazione, pur esponendo a richiesta in maniera diligente lo stato dell’arte delle (senza dubbio impegnative e delicate) procedure di riconoscimento, non ha mai richiesto chiarimenti alla Sezione circa le corrette modalità di ottemperanza delle pronunzie in materia, tantomeno su quella intervenuta in favore della ricorrente nell’ambito del ricorso per silentium dalla stessa promosso con riguardo all’istanza per cui è causa.

In detta sentenza, oltretutto, con forza di giudicato, si richiedeva all’Amministrazione di conformarsi alle pronunzie unionali nonché a quelle di Adunanza Plenaria, e non di trovare eccezioni o deroghe alla applicabilità delle stesse.

  1. – In definitiva, non appare legittimo il procedimento istruttorio seguito dalla Amministrazione.

Difatti, ferma restando la ordinarietà dei termini processuali fissati dal disposto di cui all’art. 51 della Direttiva – in assenza di espressa indicazione nel senso della loro perentorietà – e ritenuta la possibilità di integrazione istruttoria da parte dell’Amministrazione (arg. ex art. 2, comma 7, e art. 10 bis, l. n. 241/1990), occorre osservare come l’inadempimento del richiedente alla richiesta istruttoria – peraltro suscettibile di proroga ovvero di sospensione secondo i generali principi di proporzionalità e di favor per la libertà di circolazione prevista dalla Direttiva e dal Trattato – non può comunque condurre ex se al rigetto dell’istanza.

Infatti, qualora venga presentato un titolo di formazione ai sensi dell’art. 13 della Direttiva o del TFUE, l’Amministrazione deve comunque valutare il percorso di studi del richiedente, come richiesto dall’Adunanza Plenaria, per successivamente decidere eventualmente allo stato degli atti se riconoscere il titolo, disporre misure compensative anche nel massimo previsto dalla normativa UE, qualora sia assente il titolo professionale, ovvero respingere motivatamente l’istanza.

  1. – Rimane da esaminare la questione della richiesta, avanzata dall’Amministrazione, di autocertificazione dei documenti inviati dal richiedente.

Sul punto, nota il Collegio che si tratta di un adempimento già effettuato, o comunque iniziato, dalla ricorrente nell’ambito della istanza di riconoscimento dei titoli, che in calce presenta, nel modulo predisposto dall’Amministrazione stessa, la formula di assunzione di responsabilità di cui al D.P.R. 445/2000 in merito alla falsità degli atti ed alle dichiarazioni mendaci.

Occorre anche chiarire che, di per sé, la dichiarazione di conformità rappresenta un adempimento richiedibile a chi insta per il riconoscimento di un titolo professionale o di un titolo formativo conseguito all’estero, trattandosi di un adempimento agevole e non sproporzionato rispetto alla Direttiva ed al TFUE.

Tuttavia nel caso di specie deve osservarsi, in via dirimente sul tema, che la ricorrente ha documentalmente dimostrato di avere risposto tempestivamente, sotto il profilo in esame, in data 29 gennaio 2024, alla richiesta del Ministero del 2 gennaio 2024.

L’Amministrazione, peraltro, nella sua relazione esplicativa, non menziona più e non offre deduzioni difensive su tale punto, e deve valere quindi il principio di non contestazione ex art. 64 c.p.a..

Anche con riguardo alla questione in parola, il provvedimento impugnato deve dunque essere annullato, ferma restando la piena legittimità di controlli ex post sulle dichiarazioni del richiedente.

  1. – In conclusione, per le ragioni che precedono, il Collegio accoglie i motivi di ricorso primo (difetto di motivazione) terzo (violazione della Direttiva e dell’art. 45 TFUE) e quinto (violazione dei principi sanciti dalla Adunanza Plenaria), nonché parzialmente quarto (nella parte in cui contesta la violazione dell’art. 49 TFUE), respingendo gli altri, ed annulla i provvedimenti impugnati accertando che:

(i) la richiesta di apostille è contraria ai principi di cui agli artt. 45 e 49 del TFUE come declinati dagli artt. 50 e 51 della Direttiva;

(ii) la richiesta di Adeverinta, qualora quest’ultima sia ritenuta non regolarizzabile o regolarizzabile solo entro termini perentori e qualora in caso di carenza della stessa sia ritenuto applicabile l’art. 21 octies, comma 2, della Legge 241/90, è contraria ai principi di cui agli artt. 45 e 49 del TFUE come esplicati dall’art. 51 della Direttiva.

In conseguenza, l’Amministrazione dovrà pronunziarsi di nuovo sull’istanza della ricorrente:

– nel rispetto del contraddittorio procedimentale ed alla luce anche degli atti depositati in corso di causa oltre che delle statuizioni della presente sentenza;

– evidenziando comunque entro un mese dalla pubblicazione o dalla notifica (se antecedente) della presente sentenza, una volta per tutte, ogni eventuale elemento ostativo all’accoglimento anche parziale o condizionato dell’istanza.

  1. – La domanda risarcitoria deve invece essere dichiarata infondata, in quanto estremamente generica e non essendo stata in alcun modo coltivata dalla ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio ed in corso di causa. Non sono stati dimostrati né il danno, né il fatto doloso o colposo e ovviamente nemmeno il nesso di causalità tra i predetti due elementi costitutivi della fattispecie.
  2. – Le spese di lite vanno compensate, in considerazione della parziale soccombenza reciproca nonché della peculiarità e parziale novità della questione.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

– accoglie la domanda di annullamento degli atti impugnati, nei limiti e termini di cui in narrativa;

– respinge la domanda risarcitoria.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2024 con l’intervento dei magistrati:

Alessandro Tomassetti, Presidente

Giovanni Caputi, Referendario, Estensore

Ciro Daniele Piro, Referendario

 

 

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Giovanni Caputi

Alessandro Tomassetti

 

 

 

 

 

IL SEGRETARIO