Il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, ha confermato la sentenza del TAR che aveva respinto il ricorso contro l’ordinanza dirigenziale con cui era stata dichiarata l’inefficacia della SCIA commerciale e disposta la cessazione di un’attività per la non conformità urbanistico-edilizia dei locali, già oggetto di provvedimenti di demolizione. L’appellante contestava la violazione degli artt. 19, comma 3, e 21-nonies della legge n. 241/1990, sostenendo che l’intervento dell’amministrazione fosse tardivo in quanto oltre il termine perentorio di 18 mesi dall’invio della SCIA, e lamentava una riqualificazione indebita dell’ordinanza come provvedimento sanzionatorio urbanistico-edilizio. Il Consiglio di Stato ha ribadito che il presupposto imprescindibile per l’esercizio di attività commerciale è la conformità urbanistica del locale in cui si svolge, rilevando che l’amministrazione può legittimamente intervenire per inibire l’attività commerciale in assenza di tale requisito, indipendentemente dal decorso dei termini di cui alla legge n. 241/1990. Richiamando la giurisprudenza consolidata (Cons. Stato, Ad. plen., n. 9/2017), ha ribadito che i provvedimenti repressivi relativi agli abusi edilizi non sono soggetti a termini decadenziali, essendo tali poteri esercitabili senza limiti temporali in presenza di violazioni urbanistico-edilizie.

Pubblicato il 06/09/2024

  1. 07457/2024REG.PROV.COLL.
  2. 08880/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 8880 del 2023, proposto da
– OMISSIS –  in proprio e in qualità di titolare dell’impresa – OMISSIS –  – OMISSIS – , rappresentato e difeso dall’avvocato Sergio Mascolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune Castellammare di Stabia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Maria Antonella Verde, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania (Sezione Terza), 16 ottobre 2024, n. – OMISSIS – , resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune Castellammare di Stabia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 6 giugno 2024 il Cons. Giorgio Manca e uditi per le parti gli avvocati Mascolo.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

  1. Con l’appello in trattazione, la ditta – OMISSIS –  – OMISSIS –  chiede la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, 16 ottobre 2024, n. – OMISSIS – , che ha respinto il ricorso proposto per l’annullamento dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Castellammare di Stabia, n. 306 del 20 settembre 2022, con cui è stata dichiarata l’inefficacia della s.c.i.a. commerciale presentata dall’impresa ed è stata disposta la cessazione dell’attività di autocarrozzeria per la non conformità alla normativa urbanistico-edilizia degli immobili utilizzati. In particolare, i locali sarebbero stati oggetto, prima della s.c.i.a. di subingresso nell’attività, di diverse ordinanze di demolizione (peraltro mai eseguite), trattandosi tra l’altro di zona sottoposta a vincoli paesaggistici.
  2. L’ordinanza è stata impugnata – oltre che per vizi procedimentali (omesso preavviso di rigetto, mancata confutazione delle osservazioni formulate ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990) – essenzialmente per la violazione dell’art. 19, comma 3, e dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, perché adottata quando il termine perentorio di 18 mesi dalla presentazione della segnalazione certificata, previsto per l’annullamento d’ufficio, era ormai decorso (la segnalazione certifica sarebbe stata presentata nel gennaio 2017 mentre l’ordinanza di annullamento degli effetti è del 20 settembre 2022).
  3. Il Tribunale amministrativo ha respinto tutte le censure rilevando, sulla questione fondamentale del termine di cui al citato art. 21- nonies, che l’amministrazione, nonostante abbia fatto improprio riferimento all’annullamento d’ufficio e abbia testualmente disposto l’inefficacia della SCIA commerciale, ha in effetti inteso disporre la revoca-decadenza di detto titolo abilitativo (all’esercizio dell’attività commerciale) per l’acclarata abusività degli immobili adibiti ad esercizio dell’attività di autocarrozzeria, come chiaramente si evince dalla motivazione dell’ordinanza. Il legittimo esercizio di un’attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del titolo abilitativo che per l’intera sua durata di svolgimento, all’iniziale e perdurante regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dei locali in cui essa viene espletata, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l’attività esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati, come nella specie, provvedimenti repressivi di abusi edilizi.
  4. La ditta – OMISSIS –  – OMISSIS – , rimasta soccombente, ha proposto appello essenzialmente riproponendo i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma.
  5. Nella resistenza del Comune di Castellamare di Stabia, all’udienza del 6 giugno 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.
  6. Con il primo motivo, l’appellante deduce l’ingiustizia della sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondate le censure basate sulla illegittimità dell’ordinanza impugnata per effetto dell’inutile decorso del termine di sessanta giorni per inibire l’attività, o di 12 o 18 mesi per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio. Il primo giudice, al fine di superare le censure della ditta ricorrente, avrebbe erroneamente riqualificato l’ordinanza come provvedimento con il quale il Comune ha inteso disporre la revoca-decadenza del titolo abilitativo «per l’acclarata abusività degli immobili adibiti ad esercizio dell’attività di autocarrozzeria, come chiaramente si evince dal contenuto motivazionale della gravata ordinanza».

Ad avviso dell’appellante, l’operazione compiuta dal giudice di prime cure integrerebbe la violazione dell’art. 34, comma 2, del c.p.a. (divieto di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati), posto che l’amministrazione non ha inteso revocare alcunché e, d’altronde, il potere di revoca è stato espressamente espunto dall’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990 (a far data dall’11 novembre 2014). Si confermerebbe, pertanto, l’inefficacia della inibitoria disposta con l’ordinanza impugnata.

6.1. Il motivo è manifestamente infondato, considerato che è sempre consentita al giudice la autonoma qualificazione del provvedimento amministrativo, al di là del nomen iuris utilizzato dall’autorità amministrativa (Consiglio di Stato, V, 20 marzo 2023, n. 2801; 3 agosto 2022, n. 6821; VI, 26 novembre 2021, n. 7913; V, 4 ottobre 2021, n. 6606); potere ufficioso che non è vincolato né dell’intitolazione dell’atto né tanto meno dalle deduzioni delle parti in causa (Consiglio di Stato, V, 5 giugno 2018, n. 3387), dovendo l’esatta qualificazione di un provvedimento essere effettuata solo alla luce del suo effettivo contenuto e della sua causa, con la conseguenza che l’apparenza derivante da una terminologia eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell’atto stesso, non è vincolante né può prevalere sulla sostanza, e inoltre neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell’atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato (Consiglio di Stato, V, 28 agosto 2019, n. 5921; IV, 18 settembre 2012, n. 4942).

6.2. E nemmeno rileva, come noto, la inesatta indicazione delle norme poste a base del provvedimento impugnato (per cui, secondo un costante orientamento della giurisprudenza, «il mancato richiamo alle norme di legge o di regolamento cui si collega la statuizione adottata non integra il vizio di difetto di motivazione, ove sia agevole l’identificazione del potere esercitato e non sussistano ostacoli al controllo giurisdizionale, in funzione della legittimità sostanziale dell’atto»: cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 7 luglio 2008, n. 3351).

  1. Con il secondo motivo, l’appellante censura la sentenza per aver ritenuto inammissibile la censura di nullità dell’ordinanza comunale per difetto assoluto di attribuzione, per il contrasto con l’art. 2 del d.lgs. n. 222 del 2016, il quale avrebbe inteso porre un preciso limite al potere di inibire l’attività segnalata, predeterminando i requisiti e presupposti, la cui – sola – specifica carenza legittima l’intervento inibitorio dell’amministrazione, fra i quali non rientrerebbe la conformità edilizia e urbanistica. Secondo il primo giudice, il motivo sarebbe stato proposto per la prima volta nelle memorie di discussione non notificate alla controparte, non ricollegabile ad argomentazioni espresse nel corpo del ricorso e quindi inammissibile.

Secondo l’appellante, ciò sarebbe frutto di una inadeguata lettura del ricorso, nel quale la violazione del d.lgs. n. 222 del 2016 sarebbe stata dedotta come secondo motivo (come si leggerebbe anche nella rubrica dello stesso), evidenziando come il sistema attuativo della segnalazione certificata (c.d. SCIA 2) ha limitato la discrezionalità dell’amministrazione in materia di attivazione di officine di autoriparazione, laddove i relativi presupposti e requisiti, di cui al primo comma dell’art. 19 della legge 241 del 1990, sono stati predeterminati dal legislatore nazionale, riducendo il controllo dell’ente locale e, quindi, l’attivazione dei rimedi di inibitoria, conformazione e sospensione della segnalazione certifica, solo al riscontro dei requisiti ministeriali, e non di requisiti ulteriori quali la conformità edilizia dei locali in cui si svolge l’attività artigianale. In particolare, ribadisce che il liberalizzato regime amministrativo per le officine meccaniche di autoriparazione è unicamente quello di cui punti 89-90 della tabella allegata al d.lgs. n. 222 del 2016, che fissano i requisiti e presupposti di cui al citato art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990.

In tali termini viene quindi riproposto il secondo motivo di ricorso, ritenuto inammissibile dal giudice di primo grado.

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. Per una corretta qualificazione dell’ordinanza impugnata, sotto il profilo del potere esercitato e degli effetti giuridici prodotti, è necessario muovere dalle ragioni che hanno indotto l’amministrazione comunale a dichiarare l’inefficacia della segnalazione certificata avente per oggetto il subingresso di – OMISSIS –  nell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di autoriparazione e a ordinare la cessazione dell’attività. Come si evince dalla motivazione, e trascurando aspetti non essenziali emersi dai controlli effettuati dall’amministrazione (come la rilevata «inesistenza agli atti d’ufficio di un atto autorizzatorio all’installazione di una insegna d’esercizio»), i presupposti determinanti emergono dagli accertamenti effettuati dall’ufficio urbanistica del Comune che, nella relazione datata 10 marzo 2021, trasmessa allo sportello unico, ha evidenziato «la sussistenza di diversi provvedimenti emessi dall’Ufficio Urbanistica, in termini di ordinanze di demolizione, che negli anni hanno interessato il fondo in oggetto». Successivamente, il medesimo ufficio urbanistica (con relazione del 4 gennaio 2022) ha comunicato gli esiti del sopralluogo effettuato insieme agli agenti della polizia municipale, rilevando come «sul fondo vi era la presenza di opere realizzate in assenza di titoli, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, oltretutto già oggetto di una serie di provvedimenti adottati dall’Ufficio Urbanistica» (provvedimenti puntualmente elencati in motivazione).

7.2. L’ordinanza, pertanto, come correttamente rilevato anche dal primo giudice, costituisce non un provvedimento di inibizione dell’attività oggetto di segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990, e nemmeno esercizio del potere di annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21-nonies, ma un provvedimento di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (non rileva se commerciale o artigianale) per il venir meno del presupposto fondamentale della conformità urbanistica ed edilizia dei locali in cui tale attività è svolta.

7.3. Come affermato da un consolidato indirizzo di questo Consiglio di Stato, la programmazione o pianificazione commerciale, così come quella della localizzazione delle attività artigianali o industriali, deve essere inserita nell’ambito della pianificazione urbanistica o di altro atto che sia destinato alla disciplina del governo del territorio (sulla integrazione tra i diversi interessi compresenti nella disciplina del governo del territorio si veda, ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 14 novembre 2019, n. 7839). Pertanto, non possono essere autorizzati insediamenti di attività commerciali o produttive in contrasto con la disciplina urbanistica; né, di converso, possono essere mantenute quelle attività che prima dell’apertura o successivamente perdano il requisito della conformità alle prescrizioni urbanistiche o edilizie (in termini si veda anche Consiglio di Stato, sez. II, 27 luglio 2020, n. 4774).

7.4. Dalle considerazioni sopra svolte consegue che le censure basate sulla violazione della disciplina della s.c.i.a. di cui al d.lgs. n. 222 del 2016 non colgono nel segno, posto che nel caso in esame l’ordinanza è diretta a reprimere la condizione abusiva (sotto il profilo urbanistico, come si è osservato) dei locali e dell’area in cui si svolge l’attività e si qualifica nei termini di un provvedimento di revoca in funzione sanzionatoria o di decadenza dall’autorizzazione (il che esclude anche la pertinenza dei rilievi che richiamano l’istituto della revoca provvedimentale per motivi di opportunità, di cui all’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990).

Il provvedimento impugnato, come si è veduto, muove dal rilievo delle plurime violazioni edilizie, urbanistiche e delle norme di tutela del paesaggio. Si tratta quindi di esercizio dei poteri di vigilanza e controllo sugli abusi edilizi, rispetto ai quali non è predicabile un termine (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 17 ottobre 2017, n. 9); e non è applicabile l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, perché manca un provvedimento (di primo grado) sul quale intervenire.

  1. Con il terzo motivo, l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ha risolto il rapporto di continuità tra l’originaria autorizzazione all’esercizio dell’attività e la s.c.i.a. con la quale è stato comunicato il subingresso nella medesima attività, e quindi ha escluso la contraddittorietà con il titolo autorizzatorio originario (rilasciato successivamente ai contestati abusi edilizi), «non potendo il ricorrente evidentemente giovarsi della precedente autorizzazione sindacale prot. n. 3905 del 1995 intestata al padre, interamente sostituita negli effetti dalla SCIA commerciale in questione, avente le caratteristiche, pur nell’ipotesi di subingresso, di nuovo titolo abilitativo soggetto agli ordinari controlli di legge sulla sussistenza (e permanenza) dei requisiti per poter validamente svolgere l’attività di autocarrozzeria».

Secondo l’appellante, la segnalazione del subingresso non riguardava una nuova attività ma serviva a rendere edotto l’ente locale che la medesima attività, operante in base a un titolo autorizzatorio non inciso da alcun provvedimento di autotutela, continuava la sua operatività a nome di un diverso soggetto. Per cui la verifica ai sensi del citato art. 19, comma 3, doveva essere condotta solo rispetto alla posizione del subentrante, e non avrebbe potuto contemplare quegli elementi già ponderati all’atto del rilascio dell’autorizzazione originaria.

8.1. Il motivo è infondato per le medesime ragioni evidenziate in sede di esame del secondo motivo.

La natura oggettiva della condizione abusiva dei locali utilizzati (indipendentemente dal fatto che gli abusi edilizi sussistessero già all’epoca del rilascio dell’autorizzazione originaria) non consente di prendere in considerazioni eventuali stati soggettivi di ignoranza o buona fede o non imputabilità degli abusi contestati; il che deriva dai principi affermati, in termini generali, con riferimento alle ordinanze di demolizione di opere abusive, dal Consiglio di Stato in adunanza plenaria (sentenza 17 ottobre 2017, n. 9), ove si è ritenuto che «la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino».

Se i richiamati stati soggettivi non assumono rilevanza ai fini dell’adozione, o non, dell’ordinanza di demolizione, è del tutto evidente che non possono essere presi in considerazione nemmeno in sede di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (posto che nessuna attività può essere legittimamente svolta in un locale destinato a essere demolito perché abusivo).

  1. Con il quarto motivo, l’appellante contesta la sentenza nella parte in cui ha escluso l’applicazione al caso in esame dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990. Il fatto che l’ordinanza impugnata abbia finito con l’incidere sull’autorizzazione originaria e la sua volturazione mediante subingresso, dovrebbe imporre l’obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi al subingresso.

9.1. Il motivo è manifestamente infondato, considerato che – come risulta dalla motivazione dell’ordinanza impugnata – lo sportello unico del Comune ha comunicato all’appellante l’avvio del procedimento e la parte ha presentato le proprie osservazioni procedimentali prima dell’adozione dell’atto finale.

  1. In conclusione, l’appello va respinto.
  2. La disciplina delle spese giudiziali del grado di appello segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.